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sabato 11 aprile 2020

La Pinna Nobilis e Bisso... un destino intrecciato (Seconda Parte)

Nel mio pezzo precedente abbiamo parlato della Pinna Nobilis privilegiando il suo aspetto naturalistico ed accennando alle sue relazioni antropiche, in questa parte approfondiremo proprio quell'aspetto, purtroppo, vi avviso prima, potrei divagare ancora una volta sul viale dei ricordi. Come ho precedentemente raccontato ho passato molte estati a S.Antioco, dal momento che la mia famiglia, per ramo materno, proviene proprio dall'isola. Come successo a molti, anche noi dovemmo emigrare al Nord per questioni di pura sussistenza, ma come uso dire spesso “Puoi portare il cuore di un sardo lontano dalla Sardegna, ma non la Sardegna lontano dal suo cuore”.
Sapevo cos'erano le nacchere sin da bambino, sapevo che qualcuno ne utilizzava una parte per fare dei tessuti, ma è solo negli anni 90' che mi interessai di più alla cosa. Facendo da cicerone ad un amica venuta in vacanza sull'isola, ne approfittai per rifare il giro dei
Museo Etnografico di S.Antioco
siti archeologici e nel pacchetto era compreso una visita al Museo Etnografico di S.Antioco. Fu lì che un simpatico cicerone, oggi diremmo stewart, tra aneddoti e facezie ci diede le prime informazioni sul bisso di mare e di una signora del luogo che ne portava avanti la tradizione della tessitura. In realtà la mia amica, ne aveva sentito parlare già prima e quindi provammo a vedere se era possibile incontrarla. Stiamo parlando di Chiara Vigo, ora prima di continuare, devo chiarire un punto immediatamente; esiste una diatriba sull'isola di Sant'Antioco circa meriti, tradizioni ecc, io non entrerò nel dettaglio di quella che casso senza “se” e senza “ma”, come una sterile disputa. Più sotto ho postato dei link e dei filmati, ognuno di voi che legge si farà un opinione per conto suo visionandoli. Posso riconoscere alla signora Vigo però, il merito di aver portato la conoscenza di questa tradizione fin dagli anni 80' in giro per l'Italia e non solo, quindi credo al di là delle critiche che legittimamente ognuno di noi può muovere, questo glielo si debba riconoscere incontestabilmente, rimando alla mia riflessione finale, quella che è la mia “debol opinione”.
Fili di Bisso
Tornando a noi, la signora Vigo ci ricevette in casa sua una mattina d'agosto, credo fosse il 1991, avevamo spiato prima dalla finestra aperta di casa sua la stanza con il telaio aperta sulla strada, che poi ci portò a vedere successivamente. Fu molto cortese e ci spiegò le origini di questa forma d'arte/artigianato e il suo impegno per diffonderne la conoscenza al di fuori del ristretto bacino del Sulcis. Futile dire che ebbi a rivederla in giro per il paese o nelle vicinanze di casa sua diverse volte nel corso degli anni, ma quello fu il mio unico scambio di battute con lei e non ne ebbi una cattiva impressione ad essere sincero. Come ebbi modo di scoprire in seguito Sant'Antioco non fu l'unico luogo dove questa forma d'arte ebbe a svilupparsi. Questa tradizione era radicata anche a Taranto, occorre tuttavia fare qualche passo indietro. Dare un origine alla pratica di tessere il bisso è pressochè impossibile, la sua tradizione affonda nei millenni legandosi alle civiltà antiche del bacino mediterraneo e del vicino oriente. La fitta rete di scambi, rende difficile se non impossibile stabilire con esattezza dove, come e quando essa vide la luce, un riferimento certo però lo troviamo in fonti ben anteriori a alla cultura ellenica e romana, visto che nella Bibbia, Antico Testamento, se ne fa cenno, descrivendo questa manifattura come molto apprezzata e ricercata. In un passo ad es. del 2° libro delle Cronache, Salomone chiede, per la costruzione del tempio, che il re di Tiro gli mandi un uomo esperto nei filati di bisso e nella porpora cremisi e violetto, mentre in un altro passo dello stesso libro si dice che nel tempio tutti i cantori leviti erano vestiti di bisso. 
Foto di Marco Moretti


Nell’insieme troviamo ben 46 brani del testo biblico in cui si parla del bisso. Tramite ebrei e fenici, la tecnica della lavorazione del bisso ha finito così per arrivare fino ai greci, compresi quelli delle colonie del Sud Italia come Taranto. Il bisso lascia traccia di sé spesso nel corso della Storia, legando il suo fato a quello di civiltà, Re ed Imperatori. Si legge, ad esempio, nelle fonti antiche che: i dazii furono pagati ad alcuni Re di Egitto in tele di bisso; che di bisso erano le cortine del tabernacolo nel tempio di Gerusalemme; che famiglie distinte erano impiegate al lavoro del bisso nel vestibolo dello stesso tempio; che con velo di bisso si mostrò Cleopatra alla battaglia d’Azio; che di bisso, nei loro riti solenni, vestivano i sacerdoti di Egitto; inoltre il bisso era annoverato tra le più ricche derrate che dalla Siria erano trasportate a Tiro; era impiegato nelle regie vesti più solenni; i leviti cantori erano vestiti di bisso nel tempio di Gerusalemme; il re Davide accompagnò l’Arca con la stola di bisso; gli eserciti celesti sono vestiti di bisso nell’Apocalisse; di bisso vestiva la nobiltà indiana; in fasce di bisso fu avvolto il cadavere di Anchise; fasciate di bisso furono le ferite di Pezio eroe persiano; e per finirla, con veste di bisso la vedova di Alessi seniore andò incontro all’imperatore Manuele, nella sua entrata solenne in Costantinopoli. 
 
Tessitrici di Bisso

Plinio arriva a sostenere che la cosiderazione fosse tale, che i suoi manufatti fossero venduti letteralmente a peso d'oro. Lo stesso Plinio il Vecchio ne parla diffusamente nel suo Historia Naturalis, descrivendo le modalità di pesca intensiva con un attrezzo costituito da due archi di ferro congiunti da una pertica di lunghezza utile alla profondità a cui si utilizzava, che servivano a pinzare il mollusco, chiamandolo “pernilegum” Un altra tecnica di pesca consisteva nel mettere un cappio intorno alla conchiglia ad opera da un uomo che si tuffava in apnea, ed un altro che tirava la fune dalla barca. La raccolta e tessitura del bisso di mare fu fiorente sino al 500 d.C., data nella quale fece la comparsa in Europa il baco da seta. La lavorazione del bisso di mare era assai laboriosa, mentre quella del baco da seta allevato sulle foglie di gelso, era decisamente più conveniente e pratica, così questa fiorente lavorazione dovette cedere il passo. 
Pesca della Nacchera


La tradizione/lavorazione non si perse del tutto , ma finì per divenire una specializzazione che riguardava poche famiglie si tramandavano per una manifattura artistica di pregio, fatta di pezzi unici riservati per lo più ad omaggiare personaggi ed eventi importanti. Nell’Italia meridionale, Taranto che in epoca classica era stata il centro di una fiorente lavorazione, nei secoli più vicini a noi vide dunque abbandonata la tessitura e il prezioso filato fu usato solo per ricamare. Possiamo pensare, ragionevolmente che un simile destino fu riservato anche al bisso sardo. Tuttavia la tradizione non si perse: il Prof. Attilio Cerruti condusse negli anni ‘30, con fondi del CNR, una ricerca sull’accrescimento di Pinna nobilis L., da cui il bisso si ricava, a partire dagli stadi giovanili dell’animale raccolti nella zona di San Vito, ed inseriti in cassette di legno da collocare nell’ambito dell’allora esistente “zona sperimentale” nel Mar Piccolo. 
 
Foto di Marco Moretti
Pinna Nobilis (Linnè 1758)

Gli esperimenti di A. Cerruti sull’allevamento di Pinna Nobilis L. iniziarono nell’ottobre 1937 e proseguirono fino al settembre 1939. I risultati furono resi noti tramite due pubblicazioni: 1) A. Cerruti, 1937 – “Primi esperimenti di allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar Piccolo di Taranto, in ‘La Ric. Scient., II, I: 7-8; e 2) A. Cerruti, 1939 – “Ulteriori notizie sull’allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar Piccolo di Taranto, in La Ric. Scient., XVIII: 1110-1121. L'esperimento diede buoni frutti, ma alla fine il progetto fu abbandonato. E' noto che sino ai primi decenni del secolo scorso, esistevano ancora piccole produzioni di bisso ad Alghero, La Maddalena, Cagliari, Cabras, Bosa e Sant'Antioco.
 
Arazzo realizzato da Italo Diana

 Ci fu anche chi, preso dall'entusiasmo per le particolari proprietà del tessuto marino volle sperimentarne una produzione industriale. Giuseppe Basso Arnoux inviò dalla Sardegna decine di Kg di fibra alle filande del nord-Italia. Il risultato fu però fallimentare: le macchine non solo non riuscivano a filare quei fili, ma ne venivano danneggiate! Parallelamente sull'Isola di Sant'Antioco durante il ventennio fascista, quindi in un periodo del tutto omologabile a quello in cui operò la sua ricerca il Prof. Cerruti, veniva creata sull'isola una Scuola di Tessitura del Bisso di mare. La creazione di questa scuola si deve a Italo Diana, esiste una vasta mole di documentazione a questo riguardo. Essendo considerata una manifattura di pregio godè del favore del regime, lo stesso Diana realizzò( o fece realizzare) un arazzo nel 1938 in Bisso marino per farne dono a Benito Mussolini, in occasione della sua venuta in Sardegna per l'inaugurazione della fondazione dell'insediamento estrattivo di Carbonia. Una piccola curiosità: l'arazzo, destinato a Benito Mussolini il quale sarebbe stato presente a Carbonia per l'inaugurazione della cittadina mineraria, in origine recava anche la scritta W IL DUCE e il fascio littorio. Ma il manufatto non venne consegnato e in seguito il maestro Italo Diana provvide a cancellare scritta e fascio, camuffandoli con motivi stilizzati. 
Italo Diana


Come abbiamo detto precedentemente produrre il Bisso non era una passeggiata di salute. Italo Diana doveva pagare giornalmente i pescatori perché si dedicassero alla pesca delle nacchere, dalla quale veniva estratta la preziosa fibra. Sembra che capitasse che come corrispettivo veniva fornito del tabacco, genere questo che molti pescatori non potevano permettersi a causa dell’alto costo. Il mollusco, privato della sua barba, veniva quindi restituito ai pescatori per poterlo mangiare. Italo Diana animato da un insaziabile curiosità tentò anche la tintura del bisso con la porpora ricavata dal murice (come si faceva nell’antico Egitto), S.Antioco infatti, non difetta in quanto a presenza di “Bocconi” (nome con il quale si designano due murici: Stramonita Haemastoma – Linnè 1767 e Hexaplex trunculus – Linnè 1758), l'esperimento però non andò a buon fine, stesso risultato ebbero i tentativi con essenze vegetali. Ovviamente come si desume, ad Italo Diana, va riconosciuto il merito di aver salvaguardato una manifattura di pregio che rischiava di perdersi nel tempo, viene naturale pensare che sarebbe potuto accadere affidandosi solo ed unicamente alle tradizioni famigliari di poche e sparute famiglie, destino che abbiamo visto compiersi a Taranto. La scuola, che si trovava in Via Magenta a Sant'Antioco chiuse i battenti nel 1957, quando il Diana venne chiamato a Sassari come docente in una scuola d'Arte. Fortunatamente la sua opera diede i suoi frutti e quell'eredità non andò persa, diverse donne avevano appreso quell'arte da Italo Diana: tra loro Emma Diana (figlia di Italo) e la stessa nonna di Chiara Vigo.
Chiara Vigo e il museo del Bisso di S.Antioco

Una curiosità: Italo Diana non volle mai che nessuna delle sue figlie si interessasse alla produzione del Bisso, fortunatamente per noi sua figlia Emma contravvenne a questa volontà. Oggigiorno le poche produzioni di Bisso a Sant'Antioco ( e quindi al Mondo), ammesso che si possano chiamare ancora così, vere e proprie opere d'arte che nulla hanno di commerciale per il loro valore intrinseco, sono portate avanti da un numero ristretto di persone; oltre a Chiara Vigo, posso citare le sorelle Assuntina e Giuseppina Pes e Marianna Pischedda. Di quest'ultima ho potuto ammirare i lavori in una sua esposizione nei locali prospicienti Piazza Italia a Sant'Antioco, nell'Agosto del 2017 (non posto foto mie di quest'evento perchè non era permesso agli intervenuti scattarne).


Marianna Pischedda durante la sua esposizione

Riflessione Personale:
Vivo lontano da Sant'Antioco da molto tempo, e ci torno troppo poco, sicuramente meno di quanto vorrei, malgrado mi senta molto legato all'isola. Non è un segreto per nessuno che io sono un sostenitore di una AMP (Area marina protetta) nell'area di mare compresa tra le isole di San Pietro e Sant'Antioco ed il braccio di mare sino a Portoscuso, proprio perchè amo la mia terra ed il mio mare. Detto questo so che per me, causa la lontananza è fin troppo semplice mantenere il distacco da certe diatribe di paese che trovo incomprensibili, non vivendoci. Ho cercato di scrivere questo pezzo, senza partigianeria, attenendomi ai fatti certi. Per quel che riguarda questa tradizione della lavorazione del Bisso di Mare, posso solo concordare che sia al pari di altre tradizioni, un patrimonio dell'umanità da conservare e tramandare nel rispetto innanzitutto di chi quel Bisso lo origina: la Pinna nobilis. Ho sentito dire che esistono dei progetti per coltivare i Datteri di mare in blocchi di calcestruzzo, evitando la distruzione abusiva di decine di metri quadrati di scogli per un singolo piatto di pasta. Similmente se si vuole dare una possibilità al bisso, credo sia possibile perseguire anche l'idea del Prof Cerruti, senza per questo essere costretti ad uccidere l'animale. Il Bisso fa parte della nostra Storia, e la Storia non appartiene a nessuno in particolare, bensì è un patrimonio comune.



Link:

Sito ufficiale di Chiara Vigo   
Il bisso di Taranto 
Il Lusso e l'inimmaginabile: il Bisso marino
 
Youtube:


Mostra di Marianna Pischedda 

 

Le Trame del Bisso




Il Bisso e l'arte di Chiara Vigo

 

Arianna Pintus - La lavorazione del bisso






Buone Bolle!


Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”


La Pinna Nobilis e Bisso... un destino intrecciato (Prima Parte)


S.Antioco (CI)

Negli anni 70' se visitavi qualche casa di campagna del Sulcis prospiciente il mare, o entravi in qualche locale non era inusuale trovarvi esposte le grandi valve di Nacchere (Pinna Nobilis) o qualche conchiglia di Charonia, sopra un caminetto o nei giardini.
Enciclopedia naturalistica
A quell'epoca la coscienza ambientale era assai lungi e molto più approssimativa di quella odierna, che è ancor troppo latente, prova ne è che sia la Pinna Nobilis (Linnaeus, 1758), che la Charonia lampas (Linnaeus, 1758), oggi sono specie protette e considerate sull'orlo dell'estinzione. Nella fattispecie, qui parleremo del rapporto dell'uomo con la Pinna Nobilis o Nacchera, com'è più comunemente conosciuta.
Fin dai tempi antichi veniva raccolta, probabilmente per uso alimentare, cosa che oggi mi sentirei di sconsigliare vivamente, divieti a parte, essendo un mollusco filtrante ha la tendenza ad accumulare e raccogliere, assorbendoli dal mare grandi quantità di inquinanti e patogeni. Per questo motivo è stato utilizzato come indicatore dell'inquinamento marino (anche nucleare, presso il sito de la Maddalena). Sembra che sia anche in grado a volte di produrre una perla grigia, nera, bianca o rossa di nessun valore commerciale.
Un altro motivo per cui veniva raccolta è la raccolta del bisso, il ciuffo che serve per ancorare il bivalve al substrato dove poggia eretto con la cerniera verso il basso e la parte dove le valve si allargano verso l'alto. Il bisso è stato usato per diverso tempo per impreziosire tessuti, arazzi, vesti di ecclesiasti e reali, ma di questo parleremo nella seconda parte.
Foto di Roberto Puzzarini
Nacchera in Portofino
Per nutrirsi e respirare pompa l'acqua nella cavità del mantello mediante un sifone inalante e poi la emette attraverso uno esalante. Le valve hanno il margine posteriore arrotondato e presentano una ventina di coste radiali con scaglie a forma di canali. Il colore è bruno con scaglie più chiare; l'interno
Foto di Maurizio Bellacci
Murena trova casa in una pinna nobilis

è bruno e lucente con la parte anteriore madreperlacea. Possono vivere più di 20 anni e raggiungere un metro di lunghezza, ma la dimensione media della conchiglia di un esemplare adulto è intorno ai 65 cm. Ha uno sviluppo abbastanza rapido nei primi anni di vita, in media di 10 cm per anno; raggiunta la maturità sessuale, intorno ai 40 cm, l'accrescimento rallenta e si assesta su circa 10 cm ogni 3 anni. Il guscio delle valve non è particolarmente resistente haimè, il che le rende ulteriormente vulnerabili ad atti di vandalismo, motori fuoribordo in acque basse o al semplice uso scorretto di reti da pesca, tutto questo senza escludere un suo predatore naturale: il polpo.
Come tanti molluschi marini, produce dei filamenti con i quali si ancora al fondo del mare. Questi fili, sottili e robusti, costituiscono il materiale con cui si fabbrica il filamento detto bisso marino, utilizzato in passato, specialmente in Sardegna, per la tessitura di preziosi indumenti dai colori cangianti.

Foto di Fabrizio Gandino
Nacchera - Portofino
A seguito della tutela della specie, la lavorazione del bisso marino è quasi del tutto scomparsa. Purtroppo la piaga del collezionismo e la comparsa di un protozoo nel 2018 ha avuto un impatto devastante, con un tasso di mortalità vicino al 95% per le colonie che ne erano state colpite. E' endemica nel Mar Mediterraneo, è spesso situata in mezzo alle praterie di Posidonia oceanica, da pochi metri fino a 40 di profondità. Ne è stata segnalata nel 2008 la ricomparsa anche in corrispondenza delle lagune dell'alto Adriatico, come apparente conseguenza delle scogliere artificiali del progetto Mose: negli anni 1950-'60 si era assistito alla sua progressiva scomparsa a causa dell'inquinamento lagunare causato dagli scarichi del polo industriale di Marghera.
Personalmente mi è capitato di poterne osservare esemplari anche nel Parco Marino dell'Argentario, nel mare del Sulcis, ed in Liguria.

Foto di Roberto Puzzarini
Pinna Nobilis predata - Calafuria (LI)

Penso che tutti voi ricorderete il naufragio della Costa Concordia alle Scoglio delle Scole prospiciente l'Isola del Giglio; il recupero durato mesi e con l'impiego di un numeroso numero di strutture invasive per natura e numero, richiese di prendere e riposizionare l'intera colonia del luogo di Pinne nobilis, un operazione effettuata sicuramente con le migliori intenzioni, ma sul cui successo in molti hanno dubitato, malgrado l'impegno notevole.
Purtroppo è una specie minacciata dalla raccolta per il collezionismo, e neppure l'iscrizione nella Lista Rossa IUCN, che la classifica come specie in pericolo critico di estinzione (Critically Endangered), riesce ad evitare che puntualmente, ogni estate qualche turista cerchi di portarsene a casa un esemplare. Ma i guai non finiscono qui, purtroppo la progressiva riduzione delle praterie di Posidonia oceanica ha ulteriormente aggravato la situazione.

Pesca della Pinna Nobilis  (Foto d'epoca)
È inserita nell'elenco delle specie protette dal protocollo SPA/BIO (Convenzione di Barcellona), negli allegati della Direttiva 92/43/CEE (Direttiva Habitat) della UE e nei successivi aggiornamenti Direttiva 2006/105/CE , elencata nell'Allegato IV - Specie animali e vegetali di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa e perciò ne è vietata la raccolta se non per scopi scientifici. Capita spesso che offra riparo ad altri piccoli organismi come, Rissoa, Alvania, Elysia timida, gamberetti, policheti e cnidari. C'è a chi è capitato vedere un esemplare morto, privo del suo mollusco, divenire la tana di una piccola murena, questo alla Scoglietto dinanzi a Porto Ferraio.

Pinna Nobilis - Giannutri (GR)



Regno                                                     Animalia
Phylum                                                   Mollusca
Classe                                                     Bivalvia
Sottoclasse                                             Pteriomorphia
Ordine                                                    Ostreida
Superfamiglia                                         Pinnidae
Genere                                                    Pinna



Link:
 Wikipedia : Pinna nobilis 
Allarme per la pinna nobilis sentinella della salute del mare
 Golfo di Trieste, l'epidemia sterminante della pinna nobilis
Pinna Nobilis
Pinna Nobilis Gnacchera











Bibliografia



Conchiglie del Mediterraneo – Mauro Doneddu & Egidio Trainito, ed Il Castello 2010
Atlante di flora e fauna del Mediterraneo - Egidio Trainito, Rossella Baldracconi, ed Il Castello 2014
Le Conchiglie del Mediterraneo – Fratelli Melita Editore 1991
Pinneggiando nei mari italiani – Marco Bertolino, Maria Paola Ferranti, Hoelpi 2019



Fine Prima Parte         (Per continuare con la Seconda Parte clickkare qui)




Buone Bolle!






Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”


Compensare con Federico Mana


Ero alla mia seconda immersione da neobrevettato, ci trovavamo allo Scoglietto, Isola d'Elba, dinanzi a Porto Ferraio, doveva essere un immersione semplice sui 15 metri. Con me c'era Michele, e Alessandro, un dive master che mi aveva seguito durante il corso insieme agli istruttori. Ero piuttosto ansioso di tornare in acqua, ed ero appena tornato dalla Sardegna. Avevo fatto la mia prima immersione da brevettato sul relitto della Eurobulker IV, e la seconda immersione era andata a farsi benedire, perchè la mattina il gommone aveva centrato un palo sommerso nel vecchio canale della laguna di S.Antioco, poi si era alzato il maestrale... più niente da fare. L'immersione era cominciata bene una discesa sui sette- otto metri, graduale, ma subito dopo qualcosa era cominciato ad andare storto, provavo a compensare ma non ci riuscivo efficacemente. Fu questione di istanti, eravamo sotto da non più di una ventina di minuti, quando un fastidioso dolore all'orecchio destro mi procurava dolori piuttosto fastidiosi. Feci quello che mi era stato insegnato, risalii un poco riprovai a compensare, ma se possibile la situazione peggiorava ulteriormente. Niente da fare insomma, risalimmo alla barca e gli altri due tornarono sotto, io con le pive nel sacco rimasi su per il resto del full-day, stagione conclusa. Mi recai dall'otorino per una visita spiegandogli l'accaduto, mi disse che avevo il setto nasale un po' deviato, o smettevo con la subacquea o mi dovevo far operare al setto nasale... superfluo dire che la “sentenza” non pi piacque neppure un po'. Un paio di settimane più tardi ci ritrovammo, con molti dei presenti al full-Day dello Scoglietto, a Lucca per un evento, mi chiesero com'era andata la visita. Raccontai che avevo il setto nasale deviato ecc, per tutta risposta chiamò altri tre ragazzi li presenti che si immergevano da anni, dicendomi che lui stesso e i tre in questione avevano il setto nasale deviato. Superfluo dire che la cosa mi rincuorò non poco; mi dissero che era una situazione piuttosto comune e che, dovevo imparare a conoscermi meglio e scendere compensando spesso o capire quando era necessario. L'occasione arrivò in primavera dell'anno successivo, al fine di ottenere performance ottimali ed evitare fastidiosi e pericolosi barotraumi, compensare è qualcosa di fondamentale sia per immersioni ARA che in apnea ed in

quest'ottica il 18 di Aprile 2013 presso il il Circolo Nautico Marina di Carrara “LA NUOVA ROTTA ASSOCIAZIONE SPORTIVA DILETTANTISTICA CARRARA “ aveva organizzato una serata formativa. Presenti all'appuntamento per il C.S.D. Eravamo Sammy Colaizzi, Michele Moffa ed io. La serata in oggetto costituiva il primo step formativo per permettere agli apneisti di avvicinarsi alle manovre di compensazione più evolute. Ci trovammo al solito punto d'incontro con gli altri ragazzi dell'Apnea Academy a Chiesina Uzzanese e poi, organizzati, partimmo alla volta di Carrarra. Docente d'eccezione, è il caso di dirlo, era Federico Mana campione italiano di apnea profonda, il primo italiano ad essere sceso a -100 metri. La sala era gremita e all'ingresso tutti ricevemmo una curiosa confezione con un palloncino. 

Si trattava dell' Otovent, un palloncino in lattice per uso medicale, che deve essere gonfiato con il naso per normalizzare la ventilazione dell’orecchio medio venuta meno per cause flogistiche, fisiche o degenerative. L’incontro era di carattere teorico pratico e non prevedeva sessioni in acqua. L'atmosfera era rilassata e distesa, la nostra anfitrione, Cristina, non perdette tempo e ci introdusse il nostro docente. Il campione italiano iniziò subito marcando le differenze tra i tre sistemi di compensazione più conosciuti: la manovra di Valsalva, la manovra di Frenzel e per ultima, il gotha di ogni apneista, la Hands free. Quello che colpì subito gli astanti fu senz'altro l'approccio dinamico dell'esposizione che mise tutti a proprio agio, neofiti come apneisti più scafati. La manovra classica, detta di Valsalva, (dal 

nome dell'anatomista Antonio Valsalva che la utilizzava per curare l'otite purulenta) prevede che il subacqueo chiuda le narici con le dita e soffi contro la resistenza dovuta alla chiusura del naso. In questo modo l'aria viene sospinta verso le tube di Eustachio e, attraverso queste, nell'orecchio medio dove equilibrerà la pressione idrostatica esercitata dall'acqua presente all'esterno del timpano. Come evidenzia subito Federico, questa manovra richiede uno sforzo notevole che la rende inefficace durante un immersione in apnea a testa in giù, per un subacqueo, risulta più emplice sotto questo aspetto grazie alla scorta d'aria. Più efficace se correttamente eseguita, è di la manovra di Marcante-Odaglia, nota nel mondo come Manovra di Frenzel, tecnica che prevede che il subacqueo chiuda il naso con le dita e poi sollevi la lingua in alto e indietro (non la punta ma la parte posteriore) in modo da sospingere l'aria contenuta nella bocca verso le tube di Eustachio. Infine la hands free che invece consiste nel riuscire ad aprire l'ostio 

delle tube tramite movimenti dei muscoli faringei per consentire all'aria di defluire, senza l'utilizzo delle mani, cosa che pochi fortunati riescono ad eseguire in automatico, grazie alla conformazione delle tube. Da una rapida indagine in sala apprendiamo che il 90% degli astanti applica la Valsalva correntemente...o meglio pensa di applicarla. Ci viene spiegato che la compensazione solitamente avviene in modo innato ed istintivo, pertanto impadronirsi della tecnica e del controllo delle strutture deputate alla compensazione non è soltanto una questione di predisposizione fisica ma anche di tecnica ed educazione alla conoscenza del nostro corpo e dei meravigliosi meccanismi che lo regolano. La serata proseguì con il supporto di mezzi audiovisivi volti ad evidenziare sia gli errori commessi che le abilità manifestate. Fondamentali gli esercizi per raggiungere una “capacità compensatoria fine”, gli esercizi con 

il protocollo OTOVENT; normalmente il Metodo Otovent integra il piano terapeutico farmacologico, chirurgico, termale ed il programma di rieducazione tubarica impostati dallo specialista.
Otovent è calibrato per esercitare una pressione fisiologica sufficiente a ventilare l’orecchio medio attraverso la
Tuba di Eustachio. Il nostro uso durante la serata servì ad evidenziare come spesso istintivamente riusciamo a controllare, bloccare l'aria all'interno delle nostre vie aeree superiori veicolandola in modo più o meno consapevole per estroflettere la membrana timpanica attraverso le Tube di Eustachio. Il concetto ribadito da Federico Mana, si basa sulla sua esperienza personale fatta anche di diversi barotraumi all'inizio della sua carriera, è che il controllo delle proprie vie aeree si può acquisire con esercizi che ci rendano consapevoli del nostro corpo. Gli esempi e gli esercizi si susseguirono, con episodi di vere e proprie 


regressioni infantili tra l'ilarità generale......date ad un adulto un palloncino e ….. Non tutti riescono ad eseguire correttamente gli esercizi, cosa che sembrerebbe confermare le dichiarazioni del campione, che sostiene che quello che per alcuni è innato può essere raggiunto da altri attraverso l'esercizio e la concentrazione fino a renderlo un automatismo. In conclusione posso dire che la serata è stata utile ed istruttiva ed ha mantenuto le sue premesse:vale a dire gettare le basi per i presupposti di una nuova consapevolezza: Certo la strada era lunga, ma possibile. Vivamente consigliata la lettura del libro La compensazione evoluta. Dalla compensazione oltre il limite respiratorio alla manovra hands free” di Federico Mana ed una visita ai link riportati di seguito. Un aneddoto: il Mana ci raccontò che al terzo barotrauma, l'Otorino che lo visitò lo esortò ad abbandonare l'apnea come sport, perchè non adatta a lui, mi pare che i record smentiscano questa affermazione...non credete?



Youtube:
http://www.federicomana.com/eventilist.asp

Buone Bolle!


Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”

giovedì 9 aprile 2020

San Pietro: la grotta della Porcellana


Ero ancora un bambino, allora i canali televisivi disponibili si contavano sul palmo di una mano e avanzava pure un dito, l'offerta televisiva era fatta di spettacoli di varietà qualche film, qualche telefilm e i documentari. La nostra TV era una Philips in bianco e nero, i colori te li dovevi immaginare. I documentari dicevo prima, quelli di Folco Quilici e le avventure di Jacques Cousteau, abbastanza per far sognare un bambino, che non sapeva neppure nuotare all'epoca.


Un giorno, guardando un documentario proprio di Folco Quilici, si parlava di alcune popolazioni del corno d'Africa credo, scene di vita normale a spasso per i mercati all'aperto, le merci stese a terra su stuoie, Grandi canestri di canne e vimini intrecciati, le donne che li portavano in equilibrio sulla testa. Le contrattazioni e il denaro... si ma non erano soldi, o meglio lo erano, ma quelle erano conochiglie non monete! Avrete capito che quello che mi aveva stupito così tanto era quella strana valuta: le Cipree Moneta (Monetaria Caputserpentis – Linnè 1758). Di questi animali, le cipree, se ne conoscono circa 250 specie e molte altre ne verrasnno scoperte. Sono diffusi in tutti i mari caldi del globo e sono presenti sulla Terra da circa 100 milioni di anni.

 Le cipree sono particolarmente abbondanti nell’Oceano Indiano, nelle Maldive, Sri Lanka, Borneo e sulle coste africane, dalla Somalia al Mozambico, ma sono presenti anche nel Mar Mediterraneo, come la specie protetta Cypraea lurida di cui parleremo più avanti. Le conchiglie delle cipree, come per esempio Cypraea Moneta e Cypraea annulus, sono state un mezzo di pagamento per lungo tempo in Oceania, Africa e Asia ma anche in Europa, a partire dal XIII secolo; in alcuni luoghi questo costume continuò fino al XX secolo. Nella scrittura cinese alcuni termini di carattere monetario fanno ancora riferimento alla conchiglia delle cipree; questi diventarono un mezzo di scambio non solo per la loro bellezza, ma anche perché resistenti alla manipolazione e facili da trasportare e riconoscere. Le cipree hanno da sempre attratto la curiosità degli esseri umani in ogni angolo della Terra, dalle epoche preistoriche fino ai giorni nostri. L’uso delle cipree come ornamento è antichissimo. Sono infatti molti i popoli che hanno utilizzato i gusci di questi animali per confezionare monili, collane e bracciali; utilizzati per arricchire l’abbigliamento e per mostrare lo status sociale. Ma le cipree hanno assunto, nel corso dei secoli, anche il significato di oggetto simbolico e propiziatorio; per questo, presso vari popoli, questi gasteropodi erano diffusi come talismani e amuleti. Le cipree prendono il nome proprio, per la loro bellezza, da Venere, che della bellezza e' il simbolo classico. La Cypraea tigris infatti era chiamata conchiglia di Venere, si dice che quando Linneo dovette decidere su un nome da dare a queste meraviglie, decise di chiamarle Cipree in onore della Dea. Le conchiglie delle cipree erano viste dai popoli antichi come un guscio protettivo per la vita stessa e quindi collegate alla 


riproduzione e alla fecondità; spesso le donne portavano ornamenti confezionati con cipree per scongiurare l’infertilità; in Giappone la Cyprea Tigris viene chiamata koyasu-gai, (コヤスガイ) l'etimologia del suo nome deriva da una credenza: Facilitare il parto. Pensate, ancora oggi viene tenuta in mano dalle partorienti dell’isola di Ryukyu, per propiziarsi un parto esente da difficoltà. Un appunto personale: credo che questa sia la ciprea più famosa che tutti noi conosciamo, visto che siamo soliti trovarle sulle bancarelle e nei negozietti di souvenirs, peccato che questa splendida conchiglia non abbia nulla a che vedere con il nostro Mar Mediterraneo. Tornando a noi invece voglio parlare di una specie endemica dei nostri mari : la Luria lurida (Linnè, 1758), nota anche come Ciprea porcellana. “Porcellana” era il termine con il quale anticamente ci si riferiva alle cipree, proprio per la loro brillantezza e lucidità, così simili al materiale ceramico. Tuttavia pare che l'origine di questo antico nome avesse curiosamente risvolti un po' meno nobili secondo alcuni. C'è chi sostiene che la parola porcellana deriva da "porculum", porcello, anzi, porcella. Perche' le Cipree in vista ventrale ricorderebbe gli organi sessuali esterni della femmina del maiale, la scrofa. 


Tornando a noi, il suo ambiente di vita ideale, è la costa rocciosa o corallina, ricca di anfratti, spugne, alghe ed incrostazioni, nonché molti nascondigli utili a questi animali tipicamente notturni o crepuscolari. Caratteristica piuttosto evidente è la conchiglia, globosa, lucida e porcellanacea, con apertura denticolata che si diparte longitudinalmente, alla base. La peculiare lucidità della conchiglia è dovuta al fatto che quando l'animale è attivo, questa è ricoperta da un sottile strato epiteliale (mantello) che la preserva dagli attacchi incrostanti. A questo avviso infatti vi posso confermare che a differenza dei murici, ad esempio, non mi è mai successo di trovare una Ciprea viva con il guscio incrostato, mentre negli esemplari privi dell'inquilino, è piuttosto frequente. 
 
Diffusione della Ciprea Porcellana (Luria Lurida)
L'ampio mantello, quando è completamente estroflesso, avvolge con i suoi lobi laterali la conchiglia e secerne da apposite ghiandole le sostanze carbonatiche che costruiscono la conchiglia stessa. Presenta in alcuni casi colore diverso del piede e caratteristiche ornamentazioni di vario genere (papille), ridotte a semplici protuberanze o aventi spesso fogge vistose e colori vivaci. Se colpita da un fascio di luce si ritrae assai rapidamente. 

 
Tutte le specie sono a sessi separati e depongono numerose uova in anfratti come gusci di conchiglie vuote o sassi capovolti. La femmina staziona sulle uova per lungo tempo, ricoprendole con il piede per proteggerle. Dopo la schiusa, si sviluppa una larva planctonica (veliger) che si lascia trasportare dalla corrente. Parlando invece dell'alimentazione, sono ghiotte di spugne, ma non disdegnano, talune specie, una dieta mista di alghe, antozoi, ecc. Il nutrimento viene asportato dal substrato per mezzo della radula, struttura comune a tutti i gasteropodi. Non mi era mai capitato di vederne esemplari vivi, sino ad allora avevo trovato qualche esemplare morto, spesso incrostato ed in pessime condizioni, sia a Calafuria che nel mare antistante l'Isola di sant'Antioco, in questo caso un Erosaria spurca.  


E' giusto ricordare che sia la Luria lurida che l' Erosaria spurca sono specie protette e ne è proibita tassativamente la raccolta di esemplari vivi. Mi trovavo in Sardegna, presso la casa materna a Sant'Antioco,era la vigilia di Ferragosto del 2017, mi ero dovuto alzare di buon ora per andare a Calasetta a prendere il traghetto per Carloforte, il maggiore centro urbano dell'Isola di S.Pietro. Avevo appuntamento per le nove con i titolari dell' Isla Diving, che erano venuti a prendermi con un pulmino al molo d'attracco, la loro sede si trova nella zona cantieristico-navale oltre le saline di Carloforte, una vera mano santa considerato che lo zaino con l'attrezzatura pesa non poco. Soliti convenevoli, registrazioni del caso, montaggio scuba, saluti a qualche faccia nota già incrociata gli anni precedenti e si parte. Dove ci portate oggi? Domanda oziosa più che altro, perchè le scelte sono tante a S.Pietro, ma è il vento onnipresente che decide dove puoi e non puoi. 

Gli scorci stupendi non mancano: Punta delle Oche, Le colonne, Le grotte della Mezzaluna, solo per citarne alcuni, ma c'è un piccolo prezzo, a volte un po' di corrente di superficie che non permette di avventurarsi troppo in mare aperto, non sono uno di quei sub sempre in cerca di sfide estreme e ringrazio di avere ancora la capacità di guardarmi intorno e di stupirmi e fortunatamente qui ho sempre trovato un ottima visibilità. Elena mi risponde che oggi si va alla “Grotta delle Cipree”, un nome un programma. Mi si conferma che il nome è tutt'altro che casuale. Arriviamo sul posto, dopo gli ultimi controlli si scende, non si tratta di un immersione particolarmente impegnativa, girelliamo un po' sul fondo poi puntiamo risolutamente verso una parete che vede la bocca nera di una grotta aprirsi. Torce accese, si entra quasi in fila indiana, malgrado lo spazio ci sia per muoversi piuttosto agevolmente, il fondale della grotta è costellato di grossi massi, portati chissà come al suo initerno dal mare nel corso dei secoli. Tallono la guida aspettando avido che mi segnali qualcosa, l'action cam individua qualche gamberetto che zampetta lungo le pareti rifuggendo la nostra invasione, probabilmente un Parapandalo (Plesionika narval – Fabricius, 1787) una medusina viola (Pelagia Noctiluca – Forsskal, 1775)


 danza piano nella corrente lieve, ma che si sente e sembra incanalarsi all'interno. Quando ecco che la guida sfanala di brutto, mi avvicino ed eccole, due Cipree porcellana, esattamente nei pressi di alcune spugne gialle incrostanti, hanno già ritratto il mantello nel guscio e si muovono appena percettibilmente verso una fenditura, infastidite dalla luce. Continua la penetrazione nella grotta e ne vedo delle altre sempre a gruppi di due, proseguiamo sino alla fine della cavità, qui troviamo una sorta di pilastro naturale. Ci passiamo tenendolo alla nostra sinistra come in una rotonda, tornando indietro per dove siamo venuti, ed incrociando gli altri del gruppo che in fila indiana stanno percorrendo la nostra stessa strada. Non abbiamo visto solo questo, ma per me che avevo iniziato ad interessarmi ai molluschi da qualche anno fu sicuramente un esperienza memorabile e penso che potendo... tornerò da quelle parti.





NOME SCIENTIFICO

Luria lurida
NOME COMUNE

ciprea porcellana
NOMI LOCALI


UBICAZIONE PREVALENTE

intero mediterraneo
TERRITORIO ABITUALE

fondali rocciosi e sabbiosi
PROFONDITA’ PREVALENTE

da pochi metri fino a 40
CARATTERISTICHE


CURIOSITA’


POSSIBILITA’ DI INCONTRO

normali (di notte)


Bibliografia



Conchiglie del Mediterraneo – Mauro Doneddu & Egidio Trainito, ed Il Castello 2010
Atlante di flora e fauna del Mediterraneo - Egidio Trainito, Rossella Baldracconi, ed Il Castello 2014
Le Conchiglie del Mediterraneo – Fratelli Melita Editore 1991
Pinneggiando nei mari italiani – Marco Bertolino, Maria Paola Ferranti, Hoelpi 2019
“Guida della FAUNA MARINA COSTIERA DEL MEDITERRANEO” - Luther Fiedler – Franco Muzzio Editore

Veduta dell'Isola di S.Pietro


A chi rivolgersi:

Isla Diving - Carloforte  viale Cantieri, 09014 Carloforte (CI)

Note: L'isola è raggiungibile con un traghetto che parte con cadenza oraria dalle prime ore del mattino, sia da Calasetta che da Portoscuso, è consigliato vivamente informarsi sugli orari di rientro, e sulla disponibilità delle corse, alcune sono a numero limitato e solo su prenotazione.


Uno scorcio di Carloforte




Buone Bolle!


Fabrizio Gandino
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