CRONACHE DI SUBACQUEI DI SUPERFICIE -
Questo blog nasce dal desiderio di condividere le sensazioni, le emozioni, nate da una passione, la subacquea ricreativa. Differenti voci ed esperienze, come diverse sono le nostre formazioni e il nostro vivere il mare. Ci accomuna l’amore per il mare, il rispetto per la natura, il desiderio di diffondere la cultura della sicurezza. https://subacqueodisuperficie.blogspot.com/2018/10/eccoci-quinoi-perche-subacquei-di.html
Il nostro gruppo di subacquei si divide
tra l'Appennino bolognese e quello pistoiese, differenze labili per
chi vive dalle nostre parti, ma haimè i confini che sino a ieri ci
sembravano inesistenti oggi ci pesano non poco; fatto sta che mentre
oggi noi da questa parte della montagna, stiamo facendo la fine dello
stoccafisso, guardiamo con invidia i nostri amici in Toscana andare a mettere
l'attrezzatura e se stessi in ammollo, senza poter far nulla.
Non mi resta che scrivere,
ricontrollare l'attrezzatura e sperare in tempi migliori, dove
qualche torma di incoscienti, amanti della movida di gruppo e degli
spritz a 10 cm di distanza, non ci faccia riaprire una quarantena,
cosa per la quale non credo risponderei più delle mie azioni.
Fatto questo preambolo, scorrendo le
riprese e rileggendo qualche pubblicazione di subacquea mi è
capitato di tornare a parlare con alcuni amici di un incontro, che
consideriamo “Oro comune”, ma che nella realtà non è così
scontato.
Credo che tutti voi ormai sappiate
cos'è una specie aliena, in un pezzo precedente Egidio Trainito ne ha
ampiamente discorso, forse in un po' meno sanno cos'è una specie
Lessepsiana.
La definizione deriva dal nome
dell'ingegnere che progettò (Ferdinad de Lesseps) e seguì la
realizzazione del Canale di Suez, che come ben saprete mette di fatto
in comunicazione il Mar Mediterraneo con l'Oceano Indiano. Una grande
conquista per l'ingegneria e la navigazione, un bel po' di meno per
l'equilibrio dell'ecosistema marino del nostro mare.
Il Mar Mediterraneo non è un mare
chiuso, il suo sbocco naturale sull'Oceano (Atlantico, nel nostro
caso) è dato dallo stretto di Gibilterra, il che rende possibile a
specie che lo abitano di uscire e rientrare in esso. E' possibile
quindi anche una colonizzazione di specie atlantiche nell'Habitat
Mediterraneo e viceversa, sempre che si trovino le condizioni
favorevoli allo sviluppo, il che richiede tempo e cambiamenti che si
quantificano in secoli spesso. Queste colonizzazioni possono avere un successo dirompente iniziale per poi regredire con la stessa velocità con cui sono iniziate, oppure divenire permanenti creando nuovi equilibri o compromettendone irrimediabilmente altri.
Scatto di Roberto Puzzarini
Nel caso del canale di Suez il discorso
cambia quasi del tutto, in realtà oggi come oggi molte specie
aliene, sono divenute residenti al punto che siamo talmente abituati
a vederle, e si sono adattate così bene, che spesso siamo portati a
credere che siano sempre state lì, autoctone insomma.
Come forse ho accennato in precedenza
in altri pezzi del blog, la colonizzazione involontaria può avvenire
attraverso due veicoli: in primis il Canale stesso con la sua
continuità, nel secondo invece le specie aliene rimediano “un
passaggio” nelle vasche di zavorra delle navi che si riempiono e
si svuotano per aumentare la propria stabilità in mare.
Come ho detto, capita che alcune specie
siano ormai così facilmente osservabili da pensare che siano sempre
state qui, ma non è così.
Tutti conosciamo la Coris julis (Linnaeus 17589,
comunemente nota come Donzella, credo che il nome tragga origine
dalle splendide evoluzioni che questo pesce spesso compie dinanzi ai
sub che la osservano guizzando repentinamente avanti ed indietro, poi
c'è la Thalassoma pavo (Linnaeus, 1758) famiglia delle Labridae.
I suoi caratteristici colori cangianti
che vanno dal giallo dorato al verde, i caratteristici reticoli sulla
testa di colore blu, che vengono ripresi dalle righe poste sulla
schiena, la rendono inconfondibile. La sua livrea in giovane età è
quasi totalmente verde fatta eccezione per una chiazza nera che
manterrà anche da adulta.
La bocca è piccola e dotata di una
sola fila di denti nelle mascelle, con due denti uncinati centrali
più grandi.
La pinna dorsale è unica è i suoi
raggi sono quasi tutti della stessa altezza, (8 spinosi, 12-13 molli)
la pinna anale è allungata e contrapposta a quella molle dorsale.
Le pinne pettorali sono utilizzate dai
maschi durante il corteggiamento, le agitano vistosamente per
scoraggiare altri pretendendi e rivendicare un territorio, non capita
di rado che provi ad attaccare anche i Sub, insomma un pesce con
molta fiducia nei suoi mezzi, decisamente inversamente proporzionale
alla sua stazza, di solito tra i 20-25 cm al massimo.
Come a volte capita in natura tra i
pesci, cambia sesso, nasce femmina ma poi in capo a qualche anno,
diviene maschio e perde le bande blu e la macchia nera una volta
completato lo sviluppo, questo fenomeno è noto come “Ermafrodito
Proterogino”.
Scatto di Roberto Puzzarini
Si tratta di una specie Lessepsiana, proveniente dal
Mar Rosso stabilizzatasi con successo da tempo nelle nostre acque,
favorita, assai probabilmente, dall'inesorabile, progressivo fenomeno
di tropicalizzazione del Mar Mediterraneo.
La sua dieta è costituita da crostacei
e molluschi che trova smuovendo il sondo sabbioso o cacciando tra le
praterie di Posidonia che è solita frequentare, tuttavia sono stati
osservati esemplari giovani nutrirsi di parassiti di pesci molto più
grandi.
Il suo nemico naturale è il Barracuda
del Mediterraneo (Sphyraena viridensis - Cuvier, 1829), la sua riproduzione avviene tra giugno e luglio ed
è un oviparo pelagico.
La sua livrea è una delle più belle e
cangianti che si possano osservare nel nostro mare, la sua
distribuzione ormai tocca da tempo quasi tutte le nostre coste nel
Tirreno, ma viene avvistata ormai frequentemente anche in Adriatico,
in fondali che vanno dai 20 ai 100 metri di profondità.
Al solito, si ringrazia, tra gli altri, Marco Moretti e Roberto Puzzarini per i loro scatti.
Nome Scientifico:
Thalassoma pavo (Linnaeus, 1758)
Nome comune :
Zingarella, Zita, Pizza di Re, Vecchia, pesce pettine, pappagallo,
pisci urrej
Rischio di
estinzione: Minima popolazione (Stabile)
Atlante di flora e
fauna del Mediterraneo - Egidio Trainito, Rossella Baldracconi, ed Il
Castello 2014
Pinneggiando nei mari italiani – Marco Bertolino, Maria Paola
Ferranti, Hoelpi 2019
“Guida
della FAUNA MARINA COSTIERA DEL MEDITERRANEO” - Luther Fiedler –
Franco Muzzio Editore
Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle
prossime generazioni (James Freeman Clarke)
“L'area naturale marina
protetta, definita per comodità, anche a livello internazionale,
generalmente e più brevemente solo come area marina protetta
o AMP, è una zona di mare circoscritta, in genere di
particolare pregio ambientale e paesaggistico, all'interno della
quale è in vigore una normativa limitativa e protettiva
dell'habitat, delle specie e dei luoghi, e relativa alla
regolamentazione e gestione delle attività consentite. Rientrano
nell'ambito delle aree naturali protette e spesso sono anche definite
riserve; in alcune di esse viene consentita anche la pesca
commerciale tradizionale, presumibilmente non distruttiva. “
(Wikipedia)
In
Italia dopo un lunghissimo iter di studio e fattibilità, contrastato
soprattutto da pescatori, persone e politici con interessi
particolari soprattutto speculativi all'interno delle aree dove ne
era prevista l'istituzione, un estenuante e acceso dibattito politico
nonché un profondo ritardo nei confronti di tutti gli stati
occidentali, è stata finalmente attuata una legge quadro ed infine
nel giro di diversi anni sono state infine istituite nel tempo tutte
le aree marine ora in esercizio. Una delle peculiarità delle
regole dell AMP è quella di limitare le attività di pesca e
prelievo con delle regolamentazioni specifiche, ma anche quella di
promuovere ed effettuare dei programmi di studio, ricerca e
ripopolamento abbinati a dei programmi didattici ed educativi che
permettano la maggiore conoscenza e sensibilità nei confronti della
natura. Chi può opporsi alla creazione di un’ Area Marina
Protetta? Di solito persone che potrebbero subire una perdita
economica, come i palazzinari che si vedono chiudere l’opportunità
di nuove licenze edilizie, magari la costruzione di porti turistici,
per l’imposizione di nuove e costose regole. Potrebbero opporsi i
pescatori, che si vedono tagliar via un’area più o meno vasta
dalle loro opportunità. Ma anche i diportisti che temono
l’introduzione di nuove norme, come per esempio il divieto di dare
ancora, e obbligo di ormeggio a boe designate, il che li escluderebbe
dal poter pranzare in qualsiasi caletta a piacimento. Potrebbe
opporsi chi teme l’introduzione di contingenti tra visitatori e
natanti.
A tal argomento si consiglia la
consultazione del libro “Politiche europee per il paesaggio:
proposte operative” (Adriana Ghersi, 2016) dove si parla delle forti
resistenze per la nascita di un AMP a Portofino, che vedeva in primis
a contrastare la proposta, diportisti, pescatori, portatori di
diversi interessi politico/economici. E'
incontestabile, le Aree Marine Protette svolgono un
ruolo fondamentale nell’attirare turisti, certo non un turismo di
massa alla riminese per intenderci, ma orientato soprattutto a
persone interessate al territorio e alle economie locali, turisti che
vengono sottratti a spiagge e fondali che non offrono le stesse
garanzie paesaggistiche, di biodiversità, di qualità delle acque.
Le aree marine protette, quindi, rendono tantissimo e vanno
incentivate.
Vorrei parlarvi di tre realtà che
conosco, in tre stadi differenti d'opera/evoluzione/nascita delle
stersse, AMP di Portofino (GE), AMP di Livorno (LI), AMP (Non ancora
nata) di Sant'Antioco, San Pietro.
L'area naturale marina protetta di
Portofino è un' Area marina protetta istituita con decreto del
Ministero dell'Ambiente il 26 aprile 1999, con sede a Santa
Margherita Ligure, ed è situata nel territorio di levante della
città metropolitana di Genovafra i comuni di Camogli, Santa
Margherita Ligure e Portofino. L'area è stata dichiarata Area
Specialmente Protetta di Interesse Mediterraneo. Attualmente è in
vaglio, su espressiva richiesta degli stessi comuni della riserva,
presso la Camera dei deputati la proposta di trasformare il Parco
regione di Portofino in Area nazionale, accorpando nei nuovi confini
territoriali anche l'Area marina protetta . La proposta, esposta alla
Camera in una audizione del 24 gennaio 2007, ma già avanzata nel
2004, è stata accolta
positivamente dalle amministrazioni comunali e
dagli altri enti interessati, specie dopo il recente consenso di
Santa Margherita Ligure, sede dell'ente parco regionale e della
riserva marina protetta. In ogni caso sono vietate le attività
subacquee che richiedano un contatto con il fondale, e inoltre è
vietato l'ancoraggio delle imbarcazioni. La zona A (Riserva
Integrale) comprende il tratto di mare interno (Cala dell'Oro)
delimitato dalla congiungente dei punti identificati in Punta
Torretta e Punta del Buco. È il tratto di mare dove è fatto divieto
assoluto di navigazione, sosta, accesso, balneazione, pesca sportiva
o professionale, immersioni subacquee. Nella zona A l'ambiente
è conservato
Scatto nell'AMP di Portofino
integralmente e sono consentite solo attività di
soccorso e ricerca scientifica autorizzate dal soggetto gestore. La
balneazione è vietata. La zona B (Riserva Generale) va
dalla Punta del Faro di Portofino, sotto il comune di Portofino, sino
a Punta Chiappa, sita nella frazione di San Rocco di camogli, fatto
salvo il corridoio di accesso e la rada di San Fruttuoso. Tale zona è
caratterizzata da vincoli più larghi: la pesca sportiva è
consentita (regolamentata) solo ai residenti, l'immersione subacquea
con autorespiratore ad aria è consentita ai diving center e ai
privati autorizzati, mentre è liberamente consentita l'attività
subacquea in apnea e la libera balneazione. Inoltre le immersioni
subacquee da riva sono consentite solo presso Punta Chiappa, il
Dragone e la Colombara. Questo tratto di mare è molto amato e
visitato dai subacquei, attratti dal notevole valore naturalistico
dei fondali ed in particolare dal trionfo delle gorgonie rosse e
dalla ricchezza di fauna. È in questa zona che si trova il Cristo
degli abissi .
Cernia a Portofino
La zona C (Riserva Parziale) si estende
ai due lati del Promontorio di Portofino ed è famosa ed ammirata per
le sue vaste praterie di Posidonia oceanica. Ulteriori attività sono
consentite e l'attività subacquea e la balneazione è libera, a
parte specifiche limitazioni per la salvaguardia dell'ambiente. La
pesca sportiva è consentita (comunque regolamentata) ai residenti e
non. La riserva riveste un grande interesse per la subacquea, con
svariati punti di immersione di interesse naturalistico. Nella
zona A, a meno di permessi speciali, le immersioni sono
proibite. Nella zona B l'immersione subacquea è
consentita ai diving center e ai privati autorizzati, mentre sono
proibite, a meno di autorizzazione, le immersioni notturne. Nella
zona C vengono praticate ulteriori concessioni.
Personalmente adoro Portofino, che non delude davvero mai, sembra
davvero di nuotare in un acquario.
Ma veniamo a Livorno, in questo caso si parla delle Secche della
Meloria, si tratta di un’ampia scogliera affiorante che si estende
per circa 40 chilometri quadrati a 3 miglia dalla costa livornese; i
suoi fondali variano da 3 a 12 metri e sono costituiti da una
alternanza di ampie radure di sabbia, praterie di Poseidonia Oceanica
e tipiche formazioni geologiche dette “catini”. La bellezza del
paesaggio subacqueo, pieno di vita e di colori, e la ricchezza della
biodiversità sono un’attrazione indimenticabile che affascina
tanti visitatori; sui fondali si segnala la presenza di numerosi
relitti e resti archeologici, testimoni dei naufragi di imbarcazioni
che si dirigevano verso il porto pisano nel periodo romano e al tempo
delle repubbliche marinare.
Con Decreto 217/2009 il Ministero ha
approvato il regolamento recante la disciplina delle attività
consentite nelle diverse Zone dell’AMP “Secche della Meloria”.Con
la Delibera della Regione Toscana 35/2011 le Secche della Meloria
sono state designate un “Sito
di Importanza Comunitaria”
(SIC).
Attualmente per andare alle secche, se non si è in possesso di
un'imbarcazione occorre contattare le società locali adibite per il
noleggio barche oppure se lo scopo è quello di organizzare delle
visite guidate ed osservare da vicino gli organismi marini occorre
contattare i diving della zona. L'Ente Gestore aprirà in un futuro
prossimo il centro visite dell'Area Marina Protetta.
Anche qui esiste
una Zona A di riserva integrale
comprende il tratto di mare immediatamente ad ovest della Torre della
Meloria, una Zona B di riserva generale ed una Zona C di riserva
parziale. I fondali di Livorno sono caratteristici per la presenza di
corallo rosso, gorgonie, spugne, coloratissimi nudibranchi e numerose
specie di pesci oltre ad una vegetazione marina molto varia. Per
potersi immergere in questo sito è opportuno rivolgersi ai diving
operanti in zona, siti a poche miglia dall'Area Marina Protetta. Da
tempo però si caldeggia di annettere all'AMP la parte di costa
denominata “Miglio magico”, braccio di mare, idealmente compresa
tra il Castello del Boccale e quello di Sonnino, dove si trova
Calafuria. A dire il vero nei giorni scorsi un fatto piuttosto grave
è avvenuto, chi ci segue sa che tempo fa in un mio pezzo parlavo di
una rete da pesca, perfettamente operante era stata probabilmente
distesa nottetempo, da qualche pescatore dinanzi al golfetto sotto la
Torre, in dispregio a distanze regolamentari e alla sicurezza di un
sito arcinotamente frequentato dai subacquei durante tutto l'anno e a
qualsiasi ora del giorno e della notte.
In sintesi la mattina di giovedì 17
agosto, i sommozzatori del V Nucleo della Guardia Costiera di Genova,
sotto il coordinamento della Capitaneria di porto di Livorno, hanno
recuperato una grossa rete da posta, lunga oltre 100 metri,
abbandonata sul ciglio della scarpata, al largo di Calafuria.
L’attrezzo, era stato segnalato nei giorni scorsi da una
Associazione di subacquei labronica, era in parte ancora teso, per
cui continuava a catturare pesci e altre specie, oltre a essere
pericoloso per la sicurezza delle attività subacquee, in una zona
molto frequentata dagli amanti delle immersioni. L’operazione non
era semplice, richiedeva una precisione certosina per non danneggiare
il fondale e la sua flora, ma grazie alla perizia degli operatori, si
è conclusa con pieno successo. È stato così possibile preservare
il prezioso corallo rosso, vero fiore all’occhiello del litorale
livornese.
Per Sant'Antioco e San Pietro il discorso sembra ancora lungi a
venire, ricordo le mie discussioni con alcuni pescatori del posto,
quelli favorevoli si esprimevano quasi di nascosto e a bassa voce. In
questo caso l'area marina protetta che vorrebbero istituire dovrà
essere compresa all'interno dell'area vasta di reperimento che
all'incirca va da Buggerru fino a Teulada e che nelle leggi 979/82
art.31 e 394/91 art.36 avevano denominata "Isola di San Pietro".
Precisazione necessaria per far capire che se tutti i Sindaci
interessati da questo grande tratto di costa si attivano insieme ci
sarebbe una grandissima opportunità di sviluppo per l'intero Sulcis
e non solo per l'Isola di San Pietro.
Ovviamente ogni Sindaco
interessato dovrebbe effettuare un primo studio puntuale relativo al
suo territorio da presentare poi al Ministero al fine di inserirlo
nel lungo iter procedurale. Qualche territorio negli anni passati
aveva già fatto degli approfondimenti (Sant'Antioco per esempio).
Purtroppo ad oggi pare che solo il Comune di Carloforte sta
partecipando attivamente all'iterprocedurale del Ministero. Tuttavia,
pur essendo stati offerti a Carloforte i fondi per attivarne
l’istituzione, una parte degli isolani parrebbe fortemente ostile
al progetto, e ha creato un comitato NoAMP, un’altra parte della
popolazione ha quindi creato un comitato PROAMP. In questa
situazione, quando il sindaco è andato al ministero il 13 Febbraio
2020 per accettare i finanziamenti e iniziare l’iter (che comunque
durerebbe circa 4 anni), di fronte alla richiesta del Ministero di
portare avanti gli studi per la realizzazione dell'AMP, avendo avuto
comunicazione che, una volta dato il consenso e avviati gli studi
dell'ISPRA, non si potrà tornare indietro, l'amministrazione ha
richiesto una proroga (per non andare contro a quella parte della
popolazione che era contraria).
Il sindaco non ha firmato l'avvio
degli studi e LA PROCEDURA PER L'ISTITUZIONE DELL'AMP è QUINDI, AL
MOMENTO, SOSPESA; il sindaco ha poi invitato i due comitati, pro e
contro AMP, ad agire con le proprie campagne informative per poi, una
volta finite le campagne, prendere una decisione. Le campagne
informative però, per via dell'emergenza Covid19 virus, non sono
state fatte e dell’AMP non si è più parlato. Un politico pensa
alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni (James
Freeman Clarke) . Da quel che mi è dato sapere, un paio di grossi
progetti edilizi, nel caso dell'istituzione di un Parco marino
avrebbero forti problemi ad essere realizzati, sebbene già in
passato bollati come ennesime “Cattedrali nel
deserto” e dalle
dubbie sostenibilità ambientali, per non parlare delle effettive
(reali) ricadute occupazionali tanto sbandierate. In tal senso durante una diretta Facebook ho avuto modo di interrogare, Egidio
Trainito, personaggio che in quanto a mare non credo che abbia
bisogno di ulteriori presentazioni a riguardo, riporto la mia domanda
e la sintetica risposta.
Subacqueodisuperficie:“So
che a Sant'Antioco si è proposto la costituzione di un AMP,
purtroppo una parte della popolazione con dietro una certa politica è
contro, se si fa un giro in porticciolo si vedono un sacco di barche
al rientro vendere pesce sottotaglia e anno dopo anno sempre più
piccole. In questo senso credo che le AMP intervallate lungo la costa
siano non solo un bene ma qualcosa di necessario. Cosa ne pensate?”
Egidio Trainito:“Le AMP
sono fondamentali per una inversione di tendenza, ma devono anche
funzionare: AMP senza consenso oppure vuote di attività servono solo
a dare qualche stipendio (pochi) ma non svolgono un vero ruolo di
cambiamento.”
Devo ammettere che la risposta mi ha un
attimo preso di sorpresa, non una spassionata difesa ad oltranza
delle AMP ad ogni costo, ma un arguta riflessione direi. In sintesi
il messaggio alla fine è piuttosto chiaro, le AMP servono, ma solo
se, se ne comprende veramente il significato, se si percepisce quel
mare non meramente come un mezzo di sostentamento/sfruttamento (pesca
e turismo predatorio), ma come un patrimonio di cui le genti locali
stesse fanno parte. Il ritorno in termini di turismo, maggiore tasso
di riproduzione della fauna ittica, che comunque da quell'area poi
fuoriesce, non sono argomenti contestabili. Non sono discorsi vuoti e
retorici, chiunque sappia cos'è il fermo biologico per la pesca, sa
di cosa parlo, in quel periodo il mare si rigenera, pensate soltanto
a cosa è successo in questo periodo di lockdown in cui siamo
dovuti starcene chiusi in caso, limitando le attività antropiche
nell'ambiente. Non serve sempre sbarrare km di coste, ma alcuni brevi
tratti e dare modo a quelle aree di divenire santuari.
La difesa stessa dei fondali, delle
praterie di posidonia, che lo ricordiamo, è una pianta e non un
alga, sono fondamentali per l'ossigenazione stessa dell'acqua e come
nascondiglio per gli avanotti, come terreno di crescita per molti
molluschi che costituiscono la biomassa alimentare di molti piccoli
predatori. In questo senso garantire degli ancoraggi sostenibili,
limitare un diportismo selvaggio e cafone, facendo rispettare i
divieti che già ci sono sarebbe un primo passo nella giusta
direzione.
Spero di avervi dato qualche spunto di
riflessione.
Domenica
3 maggio 2020 ore 18:00 altro incontro in diretta Facebook con Egidio
Trainito. Per ogni fotografo subacqueo che si rispetti, biologo o
semplice appassionato di fauna e flora marina questo è un nome che
non si può non conoscere. Personalmente nella mia biblioteca ho due
suoi testi di Malacologia e il suo leggendario “Atlante della
Fauna e della flora del Mediterraneo”, insieme a tante altre
pubblicazioni certo. Egidio Trainito padovano di nascita, vive e
lavora in Sardegna dal 1985: si occupa principalmente di sviluppo
compatibile del turismo e di progetti di conservazione in Aree Marine
Protette. Svolge anche attività di consulente editoriale: ha curato
la collana Coste e Mari d'Italia, ha collaborato a numerosi volumi
sulle Aree Marine Protette italiane ed ha curato l'editing
dell'edizione internazionale di “Le migliori immersioni del Mondo e
Relitti”, “le migliori immersioni del mondo”. Ha pubblicato
numerosi libri sugli ambienti marini e una raccolta di racconti di
viaggio: “Il cercatore di esche”. Tra le edizioni più recenti,
per il Castello ha pubblicato le guide illustrate “Conchiglie del
Mediterraneo” e “Nudibranchi del Mediterraneo”. I suoi ultimi
libri sono “Sardegna. Mare Protetto” e “Tavolara Guida
all'AMP”. Il suo libro più importante, “Atlante di Flora e Fauna
del Mediterraneo”, è giunto alla quarta edizione, ampliato e
aggiornato. Dal 2005 è consulente della trasmissione Linea Blu di
RAI 1.
Insieme
a lui Mario Romor, che io ricordavo come training Manager di Esa
Worldwide (European Scuba Ageny).
L'incontro
è organizzato da “Blue & Blue Diving” di Viterbo, nelle
persone di Otello Litardi e l'aiuto tecnico di Muaro Baffo
(Videosolution).
Il
tema è spinoso, assai spinoso ed il titolo stesso di questo
Happening virtuale è esplicativo : “Il cambiamento è qui ed
ora..... cosa ci dice il mare?”.
Che
le attività umane siano impattattanti sull'ambiente non è una
novità; come abbiamo avuto modo di imparare da questo periodo di
Lockdown (Domiciliari di dolorosa necessità), l'assenza forzata
dell'uomo da determinate aree del pianeta, ha corrisposto ad una
riappropriazione della fauna e della flora delle aree lasciate
temporaneamente scoperte, ma non solo questo.
Purtroppo
come dirà Trainito durante questo incontro, l'attivista ambientale
svedese, Greta Thumberg non dice cavolate, il cambiamento è in atto
ed ad una velocità impressionante ed in costante accelerazione.
Non
si parla solo di riscaldamento globale, plastiche (quest' ultime
trovate ormai anche a grandi profondità) e microplastiche, ma di
una serie di mutamenti nell'ecosistema marino che avvengono in
silenzio, e con una celerità sorprendente. Molti che si interessano
alla subacquea e alla biologia marina hanno ben chiaro quale sia il
problema rappresentato dalle specie aliene nel nostro Mar
Mediterraneo.
Piccola parte dei titoli della mia biblioteca
A
molti di voi è noto come specie non endemiche dei nostri mari come
il Pesce palla, il Pesce coniglio, il vermocane, la Caulerpa
cilindracea, alcune specie di meduse siano arrivate attraverso il
Canale di Suez nei nostri mari, trovando condizioni sempre più
favorevoli a causa del riscaldamento globale.
Si
tratta di specie per lo più Lessepsiane, dal nome di Ferdinand de
Lesseps l'ingegnere francese che ne ideò e curò la realizzazione
nel decennio tra il 1859-69, tuttavia tra le altre abbiamo anche il
Granchio corridore dell'atlantico che io ebbi modo di vedere circa
cinque anni fa sull'isola di Sant'Antioco, precisamente sulla
scogliera di Mangiabarche a Calasetta.
Il
problema in realtà è molto maggiore della competizione daewiniana
nella quale l'uomo ci ha messo il suo zampino grazie ad incaute
introduzioni, opere ingegneristico/idrauliche, serbatoi di zavorra
delle navi.
Trainito
rimarca subito come ogni organismo visibile introdotto nell'
ecosistema del Mediterraneo, veicola con sé altri organismi
invisibili o parassiti che albergano nello stesso e si trasmettono
attraverso la catena alimentari con effetti ed interazioni
imprevedibili. Si pensi all'improvvisa moria della Pinna Nobilis
(Egidio Trainito la dà per spacciata), a quella del Riccio di
Prateria (Sphaerechinus granularis ) o a quello alimentare
(Paracentrotus
lividus). Appare chiaro quindi che episodi ormai divenuti norma come
gli attacchi alla popolazioni dei bivalvi da parte della Rapana
Venosa proveniente dal mare del Giappone ed ora presente in
Adriatico, al Vermocane (Hermodice carunculata Pallas) ormai
segnalato ovunque, non so9no che la punta dell'iceberg. Trainito fa
notare come si stiano sviluppando nuove simbiosi tra le specie
lessepsiane e quelle nostrane, con esiti tutt'altro che prevedibili
e/o scontati, la natura si adatta e riequilibra, ma come al solito ci
sono e saranno, vinti e vincitori. Ecco quindi che l'aragosta sta
scomparendo da certe aree, lo stesso per le gorgonie rosse e tutta
quella fauna che vive intorno, mentre il riscaldamento ha favorito
una diffusione notevole in un primo tempo del barracuda del
mediterraneo che poi si è ridimensionata per conto suo. Specie come
la Cernia rossa( Mycteroperca rubra) , il Pesce flauto (Fistularia commersoni), il Pesce coniglio (Siganus luridus), cominciano a
trovarsi spesso nelle reti ormai.
Mappa della diffusione e avvistamenti del Pesce Flauto
Ricorda
come anni fa si si diede l'allrme per la diffusione della Caulerpa
tersifoglia, ad opera di un incauto sversamento in mare delle acque
dell'acquario del Principato di Monaco, la cosa richiese un grosso
sforzo per arginare la diffusione dell'organo invasivo estraneo che
arrivò sino in Liguria, ma inaspettatamente, dopo una diffusione
rapida ebbe a ridimensionarsi rapidamente, per cause che ancora non
comprendiamo del tutto, parallelamente oggi una sua parente, la
Caulerpa Cilindracea, invece, si sta diffondendo senza peraltro dare
segni di voler rallentare la sua radicazione ovunque.
Si è
poi parlato del fatto che molti dei dati che vengono raccolti in
realtà provengono da segnalazioni di sub che non praticano ricerca,
ma fotografano e fanno avvistamenti fortuiti, in questo senso si
auspica una maggiore partecipazione per la raccolta dei dati con
particolare riferimento alla scomparsa/comparsa di specie
vecchie/nuove negli abituali siti di immersioni frequentati.
Alla
domanda cosa possiamo fare noi sub per aiutare, la risposta di Mario
Romor è stata quella di mantenere un basso impatto ambientale fin da
casa ogni giorno, e avere in mare una filosofia meno frenetica
quindi più “Slow Divers”, Egidio Trainito è decisamente più
pessimista a riguardo, sostenendo (come dargli torto) che fintanto
che non capiremo che dovremo abbracciare una visione meno
antropocentrica le cose non cambieranno.
Piccola
nota personale: ne parlerò più avanti magari in un altro pezzo ma
ho voluto la sua opinione circa la costituzione delle AMP, portando
come esempio le resistenze portate avanti da alcuni comitati a
Sant'Antioco, (ma anche a Livorno per Calafuria) . La tendenza è di
assegnare alle AMP (questo a livello globale) il 10% del patrimonio
costiero, ma si parla anche di conservare alcune aree in mare aperto;
è un dato di fatto che il pianto del pescatore che pesca sotto
taglia o non pesca affatto, è un cane che si morde la coda, le AMP
funzionano da aria di ripopolamento naturale di pesce che poi va a
colonizzare anche altre aree, è un fatto.
Questo
periodo di fermo dalle immersioni è una dolorosa necessità,
tuttavia eventi come questi sono utili non solo per noi appassionati
del mare, ma sopratutto per diffondere una maggiore consapevolezza. Si ringrazia Blue & Blue Diving, per aver organizzato questa splendida chiaccherata.
“La Haven è il
relitto visitabile più grande del Mediterraneo. L'immersione,viste
le profondità in gioco, è ritenuta "impegnativa", ed è
fortemente sconsigliata a subacquei "inesperti". Per
l'immersione (fino a 40 mt) viene richiesta un brevetto advanced (con
specialità deep) o un brevetto decompression diving (40-54 mt) /
trimix (54-82mt). Inoltre vige una Ordinanza della Capitaneria di
Porto di Genova (18/1999 e succ. 183/2003) che regolamenta le
modalità di immersione sul relitto. “
11 aprile 1991 ore 12,40: nel tratto di mare davanti a Voltri
(golfo di Genova), una colonna di fumo nero si leva densa e
maleodorante, non si sono ancora spente le sirene per il disastro del
traghetto Moby Prince il giorno precedente. Un incendio ha causato da
una grande esplosione avvenuta a bordo della petroliera Haven. Tutto
avviene dinanzi al porto petroli di Genova Multedo, durante
un'operazione di travaso di greggio dalla stiva 1, a prua, alla stiva
3, a centro nave, si verifica un'esplosione a bordo. Tra i 36
componenti l'equipaggio si contano cinque morti, Ioannis Dafnis,
Domingo Taller, Gregorio Celda, Serapion Tubonggan e il comandante
Petros Grigorakakis. Dopo la fase iniziale di incendio del
combustibile versato in mare, la nave venne trainata al largo di
Arenzano; per una fortunata serie di coincidenze (mare calmo, assenza
di vento), la maggior parte del combustibile fu esaurito dalla
combustione durata più giorni. Dalla prima esplosione al momento
dell'affondamento si stima che siano bruciate almeno 90 mila
tonnellate di petrolio. Le ottime condizioni meteo-marine evitarono
che le colonne di fumo (alte fino a 300 m) raggiungessero le nostre
coste. Come abbiamo detto in precedenza, durante la notte la nave in
fiamme si spostò in direzione di Savona . Il giorno successivo fu
trainata tra Cogoleto e Arenzano; durante l'inizio dell'operazione di
traino, la parte prodiera, indebolita dalle esplosioni e con il
metallo snervato dal forte calore generato, si staccò dal resto
dello scafo. La parte distaccatasi, lunga 95 metri, si adagiò a 470
metri di profondità .
In seguito il relitto affondò, oggi si trova
su un fondale di circa 85 metri nelle acque antistanti Arenzano in
assetto di navigazione. Si tratta del più grande relitto visitabile
da subacquei del Mediterraneo, e uno dei più grandi al mondo.
L'affondamento causò la perdita di migliaia di tonnellate di
petrolio che almeno in parte, nelle sue componenti più dense, ancora
oggi permangono nei fondali marini antistanti Genova. E come dirà
durante l'incontro sul web Dino Passeri, purtroppo perde ancora oggi,
nonostante la bonifica.La Haven aveva diverse navi gemelle, che hanno
avuto un analogo destino, rispettivamente: Amoco Cadiz, affondata il
16 marzo 1978 di fronte alle coste bretoni perdendo in mare 230.000
tonnellate di greggio, Maria Alejandra, esplosa l'11 marzo 1980 di
fronte alle coste della Mauritania, Mycene, esplosa il 3 aprile del
1980 di fronte alle coste della Sierra Leone. “La Haven è il
relitto visitabile più grande del Mediterraneo. L'immersione,viste
le profondità in gioco, è ritenuta "impegnativa", ed è
fortemente sconsigliata a subacquei "inesperti".
Per
l'immersione (fino a 40 mt) viene richiesta un brevetto advanced (con
specialità deep) o un brevetto decompression diving (40-54 mt) /
trimix (54-82mt). Inoltre vige una Ordinanza della Capitaneria di
Porto di Genova (18/1999 e succ. 183/2003) che regolamenta le
modalità di immersione sul relitto. “ (Cit.)
Venerdì 1 Maggio 2020, appuntamento in
DIRETTA FACEBOOK organizzato dal Lorenzo Sub Fiumaretta
(Sp).
Obbiettivo, alla scoperta del più grande relitto del
Mediterraneo, quello della superpetroliera Haven, adagiata di fronte
ad Arenzano (Ge). Gustosa occasione per una chiaccherata con i
produttori del più completo documentario ad oggi prodotto dal titolo
"Haven, dall'inferno al paradiso": Rino Sgorbani, Davide
Boschi, Davide Briccolani e Dino Passeri ci accompagnano in una
sorta di immersione virtuale.
Dino Passeri si definisce il
palombaro più vecchio d'Italia, e forse ha ragione mi sa, persona di
comprovata esperienza, fu chiamato dalle autorità per alcuni
sopralluoghi e sopraintendere alle operazioni di bonifica della Haven
nell'arco di diversi anni.
Rino Sgorbani è in acqua dal 1977 anno
in cui consegue il primo brevetto FIPSAS, allievo di Duillio
Marcante, negli anni 80' diventa istruttore CMAS e si consacra a
quella che diverrà poi la sua passione: la fotografia Subacquea. Gli
anni 90' segnano invece il suo passaggio alla attività di
cineoperatore subacqueo che coltiverà insieme alla sua esperienza di
subacqueo tecnico a circuito chiuso.Grande amico dell’acquese
Giancarlo Borgio, 39 anni, rimasto ucciso sabato mentre esplorava una
grotta subacquea in Svizzera, nella zona di Lugano. I due si erano
conosciuti anni fa durante un’immersione nel relitto della Haven ad
Arenzano e collaboreranno alla realizzazione del film documentario
“Haven: Dal Paradiso all'Inferno”. Davide Boschi, Piacentino,
sub di provata esperienza ed estensore di alcuni articoli di
subacquea che ha curato i testi. A Davide “Brick” Briccolani si deve il montaggio delle
riprese e dei modelli 3D della Haven, che permettono allo spettatore
di capire in quale punto siano state effettuate le
riprese durante la
visione del documentario. La serata di dipana piacevolmente, mentre
gli intervenuti ci raccontano le difficoltà e gli aneddoti che hanno
portato alla realizzazione del film. Sembra in realtà una
rimpatriata tra vecchi amici, ad i quali mancano solo Oscar Corona,
che non è riuscito a collegarsi e il compianto Giancarlo Borgio. Il
tutto moderato in modo magistrale da Cesare Balzi. Le atmosfere
sono suggestive, e la bravura dei sub fa sembrare tutto estremamente
semplice, ma a quelle profondità nulla lo è. Curiosi i commenti di
Passeri che disse che rimpiangeva di non poter aver avuto simili
visibilità quando toccò a lui a poche ore dalla tragedia, e poi in
altre occasioni riuscire a lavorare con quella visibilità.
Consiglio vivamente la visione del
docufilm, in religioso silenzio eun grazie a Lorenzo Sub Fiumaretta
(Sp) per aver organizzato questa gustosa occasione.
Giovedì 30 Aprile 2020, oltre cento
persone collegate, una cosa consueta di questi tempi, partecipare ad
una conferenza webinair, durante la quarantena che ci sta tenendo
inchiodati tutti a casa. Anfitrione di questa serata è Fabio
Portella del Diving Center “Capo Murro” (SI), Istruttore GUE
(Global Underwater Explorers), sub di esperienza, grande quanto la
sua modestia. Il tema della serata riguarda un evento storico di
portata epocale: La Battaglia delle Isole Egadi. Lo scontro navale
che ebbe come teatro il quadrilatero Drepanum (l'odierna Trapani),
Aegussa (Favignana), Hiera (Marettimo), Phorbantia (Levanzo).
Fabio Portella
Fu la battaglia navale conclusiva della Prima guerra punica. Dopo
oltre vent'anni di scontri navali e terrestri, con fortune alterne,
Cartagine subì presso le Egadi una sconfitta pesante in termini di
uomini e soprattutto di navi; economicamente allo stremo, dovette
chiedere una pace onerosa a Roma. D'altra parte il conflitto
protratto tra le due citta-stato per un ventennio aveva messo allo
stremo le finanze di entrambe. Se da una parte Roma cominciava ad
accusare qualche problema nel chiedere rinforzi ai socie a
causa delle troppe spese per le battaglie navali e i naufragi (Le navi romane erano più vulnerabili alle tempeste a causa del "Corvo" una passerella usata per l'abbordaggio),
l'erario non era in grado di allestire nessuna flotta degna di questo
nome; solo cinque anni prima dalla sconfitta di Trapani e dall'immane
successivo "naufragio di Camarina" che aveva distrutto
quasi del tutto il naviglio militare, era stata costretta a cessare
di rinforzare la flotta limitandola alle sole navi onerarie e gestire
la difesa marittima con qualche superstite Nave da guerra. Cartagine
non era messa meglio, anche se sul mare restava dominatrice, complice
il fatto dell'essersi
impadronita di parte di quel che restava della
flotta di Roma, si era però svenata nella gestione della flotta, i
commerci erano rallentati. Infatti i marinai, contrariamente alle
truppe di terra che erano in genere mercenarie, provenivano dalle
forze dei cittadini-mercanti. E i mercanti, se non possono coltivare
i loro mercati, finiscono per passare la mano alla concorrenza. I
commerci di Cartagine languivano e non potevano generare la ricchezza
necessaria a pagare le sempre più necessarie truppe mercenarie. Era
una pericolosa spirale economico-militare che rischiava di avvitarsi
su sé stessa. Fu Roma a decidersi a chiudere la partita una volta
per tutte: chiesti finanziamenti ai privati e facoltosi cittadini ,
armò a tempo di record una nuova flotta.
A questo proposito esiste
un interessante retroscena, qualche tempo prima era riuscita ad
impadronirsi di due quadrireme Cartaginesi, che regolarmente
forzavano il blocco navale dell'assedio di Lilibeo, nottetempo.
Studiate le navi nemiche ne progettarono di nuove e migliori in gran
segreto, nel contempo addestrarono un sostanzioso contingente da
imbarcare per dare battaglia. Era in gioco la sopravvivenza stessa di
Roma, come cita Polibio nei suoi scritti: «L'impresa fu,
essenzialmente, una lotta per la vita. Nell'erario, infatti, non
c'erano più risorse per sostenere quanto si erano proposti.». Il 10
marzo del 241 a.C. , scatta la trappola, la flotta romana è alla
fonda ridossata sulla costa orientale di Levanzo, il comandante
romano, Gaio Lutazio Catulo vide che la flotta cartaginese avrebbe
avuto un forte vento da ovest a favore e che questo avrebbe reso più
difficile far salpare la flotta romana.
Dapprima incerto, riflettendo
si rese conto che se avesse attaccato subito avrebbe avuto di fronte
degli scafi ancora carichi e quindi più lenti e che questi avrebbero
avuto a bordo solo forze di marina. Se avesse permesso lo scarico
delle merci e l'imbarco degli uomini di Amilcare la situazione anche
col vento in poppa non sarebbe stata altrettanto favorevole. Oggi
sappiamo dal ritrovamento di diverse ancore romane, trovate in fila
ordinata, proprio sul fondale di Levanzo, che la decisione
dell'attacco fu repentina e fulminea, tale da richiedere il taglio
delle gomene degli ancoraggi. Il resto è storia: la flotta romana si
distese su una sola linea come per formare un muro contro le navi
cartaginesi che veleggiavano verso la costa del Monte Erice. I
Cartaginesi accettarono la battaglia; ammainarono le vele per avere
maggiore mobilità e attaccarono i Romani.
Anche in questo caso
Polibio ci racconta con i suoi scritti come la situazione pendesse
sin dalle prime battute a favore dei romani:
«Poiché i preparativi per gli uni e
per gli altri venivano regolati in modo opposto rispetto allo scontro
navale svoltosi presso Drepana, anche l'esito della battaglia, com'è
naturale, risultò opposto per gli uni e per gli altri.» . Ed ancora
riferendosi ad i cartaginesi : «gli equipaggi erano completamente
privi di addestramento ed erano imbarcati per l'occasione, e i
soldati di marina erano appena arruolati e sperimentavano per la
prima volta ogni sofferenza e rischio.» . Un
errore di valutazione dei Cartaginesi , che ritenevano i Romani, a
seguito della serie di sconfitte e di naufragi, fossero incapaci di
governare le navi. Una combinazione disastrosa di errori. Inferiori
nella manovra e nel combattimento ravvicinato, i Cartaginesi videro
rapidamente affondare cinquanta navi e altre settanta furono
catturate complete di equipaggio, pare 10.000 uomini. Un fortunato
volgersi del vento permise alle superstiti, alzate nuovamente le
vele, di sganciarsi e ritornare all'Isola Sacra, Marettimo. Venendo
ai giorni nostri e alla serata in questione Fabio Portella, dopo gli
inevitabili cenni storici di cui abbiamo appena letto, ci ha parlato
del ritrovamento/recupero di 18 rostri in bronzo che vennero
utilizzati sulle navi che si diedero battaglia quel giorno.
Una
spedizione, frutto di una collaborazione internazionale tra la
Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana e la GUE. Il
ritrovamento del primo rostro lo si deve al caso, un pescatore lo
trovò impigliato, probabilmente in una rete a strascico e lo barattò
con una dentiera! Si avete capito bene, il dentista in questione lo
espose incautamente e la cosa arrivò alle orecchie del prof,
Sebastiano Tusa, un pioniere in questa ricerca archeologica. I rostri
servivano a speronare le navi avversarie con tecniche di ingaggio ben
definite, tuttavia le scoperte recenti hanno sfatato una credenza
diffusa solo fino a qualche anno fa, e cioè che i rostri fossero a
“Perdere”. Vale a dire che, dopo che venivano conficcati nello
scafo della nave avversaria, similmente ad un pungiglione sarebbero
rimasti lì, il ritrovamento di alcuni rostri con ancora resti lignei
all'interno e fissati da lunghi chiodi di bronzo sfata questa
credenza, come Fabio Portella ama ripetere è la “Prova Provata”
che il rostro nasceva e moriva con la nave.
Al momento ne sono stati
ritrovati 18 durante le varie campagne, ad una profondità tra gli 85
e i 100 metri, recuperi onerosi, dal momento che il peso oscilla, a
seconda dei modelli tra i 180-250 kg di ottimo bronzo. I romani
vinsero questa battaglia, ma stranamente i rostri che vengono
ritrovati sono per lo più romani, su 18 al momento 16 sono romani e
solo due cartaginesi. Una spiegazione potrebbe essere che in
precedenti battaglie i Punici avevano predato delle navi romane
grazie alla loro schiacciante superiorità, e che questo naviglio
fosse stato inglobato nella flotta Cartaginese, quindi i Romani alle
Egadi si trovarono contro le loro stesse navi. Se ne parlerà ancora
degli anni a questo proposito, ho linkato all'uopo alcuni filmati che
raccontano ampiamente sia il fatto storico che la campagna di
recupero. Buona visione!
Nel mio pezzo precedente abbiamo parlato della Pinna Nobilis
privilegiando il suo aspetto naturalistico ed accennando alle sue
relazioni antropiche, in questa parte approfondiremo proprio
quell'aspetto, purtroppo, vi avviso prima, potrei divagare ancora una
volta sul viale dei ricordi. Come ho precedentemente raccontato ho
passato molte estati a S.Antioco, dal momento che la mia famiglia,
per ramo materno, proviene proprio dall'isola. Come successo a molti,
anche noi dovemmo emigrare al Nord per questioni di pura sussistenza,
ma come uso dire spesso “Puoi portare il cuore di un sardo lontano
dalla Sardegna, ma non la Sardegna lontano dal suo cuore”.
Sapevo
cos'erano le nacchere sin da bambino, sapevo che qualcuno ne
utilizzava una parte per fare dei tessuti, ma è solo negli anni 90'
che mi interessai di più alla cosa. Facendo da cicerone ad un
amica venuta in vacanza sull'isola, ne approfittai per rifare il giro
dei
Museo Etnografico di S.Antioco
siti archeologici e nel pacchetto era compreso una visita al Museo Etnografico di S.Antioco. Fu lì che un simpatico cicerone,
oggi diremmo stewart, tra aneddoti e facezie ci diede le prime
informazioni sul bisso di mare e di una signora del luogo che ne
portava avanti la tradizione della tessitura. In realtà la mia
amica, ne aveva sentito parlare già prima e quindi provammo a vedere
se era possibile incontrarla. Stiamo parlando di Chiara Vigo, ora
prima di continuare, devo chiarire un punto immediatamente; esiste
una diatriba sull'isola di Sant'Antioco circa meriti, tradizioni ecc,
io non entrerò nel dettaglio di quella che casso senza “se” e
senza “ma”, come una sterile disputa. Più sotto ho postato dei
link e dei filmati, ognuno di voi che legge si farà un opinione per
conto suo visionandoli. Posso riconoscere alla signora Vigo però, il
merito di aver portato la conoscenza di questa tradizione fin dagli
anni 80' in giro per l'Italia e non solo, quindi credo al di là
delle critiche che legittimamente ognuno di noi può muovere, questo
glielo si debba riconoscere incontestabilmente, rimando alla mia
riflessione finale, quella che è la mia “debol opinione”.
Fili di Bisso
Tornando a noi, la signora Vigo ci ricevette in casa sua una mattina
d'agosto, credo fosse il 1991, avevamo spiato prima dalla finestra
aperta di casa sua la stanza con il telaio aperta sulla strada, che
poi ci portò a vedere successivamente. Fu molto cortese e ci spiegò
le origini di questa forma d'arte/artigianato e il suo impegno per
diffonderne la conoscenza al di fuori del ristretto bacino del
Sulcis. Futile dire che ebbi a rivederla in giro per il paese o nelle
vicinanze di casa sua diverse volte nel corso degli anni, ma quello
fu il mio unico scambio di battute con lei e non ne ebbi una cattiva
impressione ad essere sincero. Come ebbi modo di scoprire in seguito
Sant'Antioco non fu l'unico luogo dove questa forma d'arte ebbe a
svilupparsi. Questa tradizione era radicata anche a Taranto, occorre
tuttavia fare qualche passo indietro. Dare un origine alla pratica di
tessere il bisso è pressochè impossibile, la sua tradizione affonda
nei millenni legandosi alle civiltà antiche del bacino mediterraneo
e del vicino oriente. La fitta rete di scambi, rende difficile se non
impossibile stabilire con esattezza dove, come e quando essa vide la
luce, un riferimento certo però lo troviamo in fonti ben anteriori a
alla cultura ellenica e romana, visto che nella Bibbia, Antico
Testamento, se ne fa cenno, descrivendo questa manifattura come molto
apprezzata e ricercata. In
un passo ad es. del 2° libro delle Cronache,
Salomone chiede, per la costruzione del tempio, che il re di Tiro gli
mandi un uomo esperto nei filati di bisso e nella porpora cremisi e
violetto, mentre in un altro passo dello stesso libro si dice che nel
tempio tutti i cantori leviti erano vestiti di bisso.
Foto di Marco Moretti
Nell’insieme
troviamo
ben 46 brani del testo biblico in cui si parla del bisso.
Tramite ebrei e fenici, la tecnica della lavorazione del bisso ha
finito così per arrivare fino ai greci, compresi quelli delle
colonie del Sud Italia come Taranto. Il bisso lascia traccia di sé
spesso nel corso della Storia, legando il suo fato a quello di
civiltà, Re ed Imperatori. Si legge, ad esempio, nelle
fonti antiche
che: i dazii furono pagati ad alcuni Re di Egitto in tele di bisso;
che di bisso erano le cortine del tabernacolo nel tempio di
Gerusalemme; che famiglie distinte erano impiegate al lavoro del
bisso nel vestibolo dello stesso tempio; che con velo di bisso si
mostrò Cleopatra alla battaglia d’Azio; che di bisso, nei loro
riti solenni, vestivano i sacerdoti di Egitto; inoltre il bisso era
annoverato tra le più ricche derrate che dalla Siria erano
trasportate a Tiro; era impiegato nelle regie vesti più solenni; i
leviti cantori erano vestiti di bisso nel tempio di Gerusalemme; il
re Davide accompagnò l’Arca con la stola di bisso; gli eserciti
celesti sono vestiti di bisso nell’Apocalisse; di bisso vestiva la
nobiltà indiana; in fasce di bisso fu avvolto il cadavere di
Anchise; fasciate di bisso furono le ferite di Pezio eroe persiano; e
per finirla, con veste di bisso la vedova di Alessi seniore andò
incontro all’imperatore Manuele, nella sua entrata solenne in
Costantinopoli.
Tessitrici di Bisso
Plinio arriva a sostenere che la cosiderazione fosse
tale, che i suoi manufatti fossero venduti letteralmente a peso d'oro.
Lo stesso Plinio il Vecchio ne parla diffusamente nel suo Historia
Naturalis, descrivendo le modalità di pesca intensiva con un
attrezzo costituito da due archi di ferro congiunti da una pertica
di lunghezza utile alla profondità a cui si utilizzava, che
servivano a pinzare il mollusco, chiamandolo “pernilegum” Un
altra tecnica di pesca consisteva nel mettere un cappio intorno alla
conchiglia ad opera da un uomo che si tuffava in apnea, ed un altro
che tirava la fune dalla barca. La raccolta e tessitura del bisso di
mare fu fiorente sino al 500 d.C., data nella quale fece la comparsa
in Europa il baco da seta. La lavorazione del bisso
di mare
era assai laboriosa, mentre quella del baco da seta allevato sulle
foglie di gelso, era decisamente più conveniente e pratica, così
questa fiorente lavorazione dovette cedere il passo.
Pesca della Nacchera
La
tradizione/lavorazione non si perse del tutto , ma finì per divenire
una specializzazione che riguardava poche famiglie si tramandavano
per una manifattura artistica di pregio, fatta di pezzi unici
riservati per lo più ad omaggiare personaggi ed eventi importanti.
Nell’Italia meridionale, Taranto che in epoca classica era stata il
centro di una fiorente lavorazione, nei secoli più vicini a noi vide
dunque abbandonata la tessitura e il prezioso filato fu usato solo
per ricamare. Possiamo pensare, ragionevolmente che un simile destino
fu riservato anche al bisso sardo. Tuttavia la tradizione non si
perse: il Prof. Attilio
Cerruti
condusse negli anni ‘30, con fondi del CNR, una ricerca
sull’accrescimento di Pinna
nobilis L.,
da cui il bisso si ricava, a partire dagli stadi giovanili
dell’animale raccolti nella zona di San Vito, ed inseriti in
cassette di legno da collocare nell’ambito dell’allora esistente
“zona sperimentale” nel Mar Piccolo.
Pinna Nobilis (Linnè 1758)
Gli esperimenti di A.
Cerruti sull’allevamento di
Pinna Nobilis L.
iniziarono nell’ottobre 1937 e proseguirono fino al settembre 1939.
I risultati furono resi noti tramite due pubblicazioni: 1) A.
Cerruti, 1937 – “Primi
esperimenti di allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar
Piccolo di Taranto,
in ‘La Ric. Scient., II, I: 7-8; e 2) A. Cerruti, 1939 –
“Ulteriori
notizie sull’allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar
Piccolo di Taranto,
in La Ric. Scient., XVIII: 1110-1121. L'esperimento diede buoni
frutti, ma alla fine il progetto fu abbandonato. E' noto che sino ai
primi decenni del secolo scorso, esistevano ancora piccole produzioni
di bisso ad Alghero, La Maddalena, Cagliari, Cabras, Bosa e
Sant'Antioco.
Arazzo realizzato da Italo Diana
Ci fu anche chi, preso dall'entusiasmo per le
particolari proprietà del tessuto marino volle sperimentarne una
produzione industriale. Giuseppe Basso Arnoux inviò dalla Sardegna
decine di Kg di fibra alle filande del nord-Italia. Il risultato fu
però fallimentare: le macchine non solo non riuscivano a filare quei
fili, ma ne venivano danneggiate! Parallelamente sull'Isola di
Sant'Antioco durante il ventennio fascista, quindi in un periodo del
tutto omologabile a quello in cui operò la sua ricerca il Prof.
Cerruti, veniva creata sull'isola una Scuola di Tessitura del Bisso
di mare. La creazione di questa scuola si deve a Italo Diana, esiste
una vasta mole di documentazione a questo riguardo. Essendo
considerata una manifattura di pregio godè del favore del regime, lo
stesso Diana realizzò( o fece realizzare) un arazzo nel 1938 in
Bisso marino per farne dono a Benito Mussolini, in occasione della
sua venuta in Sardegna per l'inaugurazione della fondazione
dell'insediamento estrattivo di Carbonia. Una piccola curiosità:
l'arazzo, destinato a Benito Mussolini il quale sarebbe stato
presente a Carbonia per l'inaugurazione della cittadina mineraria, in
origine recava anche la scritta W IL DUCE e il fascio littorio. Ma il
manufatto non venne consegnato e in seguito il maestro Italo Diana
provvide a cancellare scritta e fascio, camuffandoli con motivi
stilizzati.
Italo Diana
Come abbiamo detto precedentemente produrre il Bisso non
era una passeggiata di salute. Italo Diana doveva pagare giornalmente
i pescatori perché si dedicassero alla pesca delle nacchere, dalla
quale veniva estratta la preziosa fibra. Sembra che capitasse che
come corrispettivo veniva fornito del tabacco, genere questo che
molti pescatori non potevano permettersi a causa dell’alto costo.
Il mollusco, privato della sua barba, veniva quindi restituito ai
pescatori per poterlo mangiare. Italo Diana animato da un insaziabile
curiosità tentò anche la tintura del bisso con la porpora ricavata
dal murice (come si faceva nell’antico Egitto), S.Antioco infatti,
non difetta in quanto a presenza di “Bocconi” (nome con il quale
si designano due murici: Stramonita Haemastoma – Linnè 1767 e
Hexaplex trunculus – Linnè 1758), l'esperimento però non andò a
buon fine, stesso risultato ebbero i tentativi con essenze vegetali.
Ovviamente come si desume, ad Italo Diana, va riconosciuto il merito
di aver salvaguardato una manifattura di pregio che rischiava di
perdersi nel tempo, viene naturale pensare che sarebbe potuto
accadere affidandosi solo ed unicamente alle tradizioni famigliari di
poche e sparute famiglie, destino che abbiamo visto compiersi a
Taranto. La scuola, che si trovava in Via Magenta a Sant'Antioco
chiuse i battenti nel 1957, quando il Diana venne chiamato a Sassari
come docente in una scuola d'Arte. Fortunatamente la sua opera diede
i suoi frutti e quell'eredità non andò persa, diverse donne avevano
appreso quell'arte da Italo Diana: tra loro Emma Diana
(figlia di Italo) e la stessa nonna di Chiara Vigo.
Chiara Vigo e il museo del Bisso di S.Antioco
Una curiosità:
Italo Diana non volle mai che nessuna delle sue figlie si
interessasse alla produzione del Bisso, fortunatamente per noi sua
figlia Emma contravvenne a questa volontà. Oggigiorno le poche
produzioni di Bisso a Sant'Antioco ( e quindi al Mondo), ammesso che
si possano chiamare ancora così, vere e proprie opere d'arte che
nulla hanno di commerciale per il loro valore intrinseco, sono
portate avanti da un numero ristretto di persone; oltre a Chiara
Vigo, posso citare le sorelle Assuntina e Giuseppina Pes e Marianna
Pischedda. Di quest'ultima ho potuto ammirare i lavori in una sua
esposizione nei locali prospicienti Piazza Italia a Sant'Antioco,
nell'Agosto del 2017 (non posto foto mie di quest'evento perchè non
era permesso agli intervenuti scattarne).
Marianna Pischedda durante la sua esposizione
Riflessione Personale: Vivo lontano da Sant'Antioco da molto tempo, e ci torno troppo
poco, sicuramente meno di quanto vorrei, malgrado mi senta molto
legato all'isola. Non è un segreto per nessuno che io sono un
sostenitore di una AMP (Area marina protetta) nell'area di mare
compresa tra le isole di San Pietro e Sant'Antioco ed il braccio di
mare sino a Portoscuso, proprio perchè amo la mia terra ed il mio
mare. Detto questo so che per me, causa la lontananza è fin troppo
semplice mantenere il distacco da certe diatribe di paese che trovo
incomprensibili, non vivendoci. Ho cercato di scrivere questo pezzo,
senza partigianeria, attenendomi ai fatti certi. Per quel che
riguarda questa tradizione della lavorazione del Bisso di Mare, posso
solo concordare che sia al pari di altre tradizioni, un patrimonio
dell'umanità da conservare e tramandare nel rispetto innanzitutto di
chi quel Bisso lo origina: la Pinna nobilis. Ho sentito dire che
esistono dei progetti per coltivare i Datteri di mare in blocchi di
calcestruzzo, evitando la distruzione abusiva di decine di metri
quadrati di scogli per un singolo piatto di pasta. Similmente se si
vuole dare una possibilità al bisso, credo sia possibile perseguire
anche l'idea del Prof Cerruti, senza per questo essere costretti ad
uccidere l'animale. Il Bisso fa parte della nostra Storia, e la
Storia non appartiene a nessuno in particolare, bensì è un
patrimonio comune.