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venerdì 8 maggio 2020

Il cambiamento è qui ed ora... Cosa ci dice il mare? - Due chiacchere con Egidio Trainito





Domenica 3 maggio 2020 ore 18:00 altro incontro in diretta Facebook con Egidio Trainito. Per ogni fotografo subacqueo che si rispetti, biologo o semplice appassionato di fauna e flora marina questo è un nome che non si può non conoscere. Personalmente nella mia biblioteca ho due suoi testi di Malacologia e il suo leggendario “Atlante della Fauna e della flora del Mediterraneo”, insieme a tante altre pubblicazioni certo. Egidio Trainito padovano di nascita, vive e lavora in Sardegna dal 1985: si occupa principalmente di sviluppo compatibile del turismo e di progetti di conservazione in Aree Marine Protette. Svolge anche attività di consulente editoriale: ha curato la collana Coste e Mari d'Italia, ha collaborato a numerosi volumi sulle Aree Marine Protette italiane ed ha curato l'editing dell'edizione internazionale di “Le migliori immersioni del Mondo e Relitti”, “le migliori immersioni del mondo”. Ha pubblicato numerosi libri sugli ambienti marini e una raccolta di racconti di viaggio: “Il cercatore di esche”. Tra le edizioni più recenti, per il Castello ha pubblicato le guide illustrate “Conchiglie del Mediterraneo” e “Nudibranchi del Mediterraneo”. I suoi ultimi libri sono “Sardegna. Mare Protetto” e “Tavolara Guida all'AMP”. Il suo libro più importante, “Atlante di Flora e Fauna del Mediterraneo”, è giunto alla quarta edizione, ampliato e aggiornato. Dal 2005 è consulente della trasmissione Linea Blu di RAI 1. 



 
Insieme a lui Mario Romor, che io ricordavo come training Manager di Esa Worldwide (European Scuba Ageny).
L'incontro è organizzato da “Blue & Blue Diving” di Viterbo, nelle persone di Otello Litardi e l'aiuto tecnico di Muaro Baffo (Videosolution).
Il tema è spinoso, assai spinoso ed il titolo stesso di questo Happening virtuale è esplicativo : “Il cambiamento è qui ed ora..... cosa ci dice il mare?”.
Che le attività umane siano impattattanti sull'ambiente non è una novità; come abbiamo avuto modo di imparare da questo periodo di Lockdown (Domiciliari di dolorosa necessità), l'assenza forzata dell'uomo da determinate aree del pianeta, ha corrisposto ad una riappropriazione della fauna e della flora delle aree lasciate temporaneamente scoperte, ma non solo questo.
Purtroppo come dirà Trainito durante questo incontro, l'attivista ambientale svedese, Greta Thumberg non dice cavolate, il cambiamento è in atto ed ad una velocità impressionante ed in costante accelerazione.
Non si parla solo di riscaldamento globale, plastiche (quest' ultime trovate ormai anche a grandi profondità) e microplastiche, ma di una serie di mutamenti nell'ecosistema marino che avvengono in silenzio, e con una celerità sorprendente. Molti che si interessano alla subacquea e alla biologia marina hanno ben chiaro quale sia il problema rappresentato dalle specie aliene nel nostro Mar Mediterraneo.
Piccola parte dei titoli della mia biblioteca
A molti di voi è noto come specie non endemiche dei nostri mari come il Pesce palla, il Pesce coniglio, il vermocane, la Caulerpa cilindracea, alcune specie di meduse siano arrivate attraverso il Canale di Suez nei nostri mari, trovando condizioni sempre più favorevoli a causa del riscaldamento globale.
Si tratta di specie per lo più Lessepsiane, dal nome di Ferdinand de Lesseps l'ingegnere francese che ne ideò e curò la realizzazione nel decennio tra il 1859-69, tuttavia tra le altre abbiamo anche il Granchio corridore dell'atlantico che io ebbi modo di vedere circa cinque anni fa sull'isola di Sant'Antioco, precisamente sulla scogliera di Mangiabarche a Calasetta.
Il problema in realtà è molto maggiore della competizione daewiniana nella quale l'uomo ci ha messo il suo zampino grazie ad incaute introduzioni, opere ingegneristico/idrauliche, serbatoi di zavorra delle navi.



Trainito rimarca subito come ogni organismo visibile introdotto nell' ecosistema del Mediterraneo, veicola con sé altri organismi invisibili o parassiti che albergano nello stesso e si trasmettono attraverso la catena alimentari con effetti ed interazioni imprevedibili. Si pensi all'improvvisa moria della Pinna Nobilis (Egidio Trainito la dà per spacciata), a quella del Riccio di Prateria (Sphaerechinus granularis ) o a quello alimentare (Paracentrotus lividus). Appare chiaro quindi che episodi ormai divenuti norma come gli attacchi alla popolazioni dei bivalvi da parte della Rapana Venosa proveniente dal mare del Giappone ed ora presente in Adriatico, al Vermocane (Hermodice carunculata Pallas) ormai segnalato ovunque, non so9no che la punta dell'iceberg. Trainito fa notare come si stiano sviluppando nuove simbiosi tra le specie lessepsiane e quelle nostrane, con esiti tutt'altro che prevedibili e/o scontati, la natura si adatta e riequilibra, ma come al solito ci sono e saranno, vinti e vincitori. Ecco quindi che l'aragosta sta scomparendo da certe aree, lo stesso per le gorgonie rosse e tutta quella fauna che vive intorno, mentre il riscaldamento ha favorito una diffusione notevole in un primo tempo del barracuda del mediterraneo che poi si è ridimensionata per conto suo. Specie come la Cernia rossa( Mycteroperca rubra) , il Pesce flauto (Fistularia commersoni), il Pesce coniglio (Siganus luridus), cominciano a trovarsi spesso nelle reti ormai.

 
Mappa della diffusione e avvistamenti del Pesce Flauto

Ricorda come anni fa si si diede l'allrme per la diffusione della Caulerpa tersifoglia, ad opera di un incauto sversamento in mare delle acque dell'acquario del Principato di Monaco, la cosa richiese un grosso sforzo per arginare la diffusione dell'organo invasivo estraneo che arrivò sino in Liguria, ma inaspettatamente, dopo una diffusione rapida ebbe a ridimensionarsi rapidamente, per cause che ancora non comprendiamo del tutto, parallelamente oggi una sua parente, la Caulerpa Cilindracea, invece, si sta diffondendo senza peraltro dare segni di voler rallentare la sua radicazione ovunque.
Si è poi parlato del fatto che molti dei dati che vengono raccolti in realtà provengono da segnalazioni di sub che non praticano ricerca, ma fotografano e fanno avvistamenti fortuiti, in questo senso si auspica una maggiore partecipazione per la raccolta dei dati con particolare riferimento alla scomparsa/comparsa di specie vecchie/nuove negli abituali siti di immersioni frequentati.
Alla domanda cosa possiamo fare noi sub per aiutare, la risposta di Mario Romor è stata quella di mantenere un basso impatto ambientale fin da casa ogni giorno, e avere in mare una filosofia meno frenetica quindi più “Slow Divers”, Egidio Trainito è decisamente più pessimista a riguardo, sostenendo (come dargli torto) che fintanto che non capiremo che dovremo abbracciare una visione meno antropocentrica le cose non cambieranno.
Piccola nota personale: ne parlerò più avanti magari in un altro pezzo ma ho voluto la sua opinione circa la costituzione delle AMP, portando come esempio le resistenze portate avanti da alcuni comitati a Sant'Antioco, (ma anche a Livorno per Calafuria) . La tendenza è di assegnare alle AMP (questo a livello globale) il 10% del patrimonio costiero, ma si parla anche di conservare alcune aree in mare aperto; è un dato di fatto che il pianto del pescatore che pesca sotto taglia o non pesca affatto, è un cane che si morde la coda, le AMP funzionano da aria di ripopolamento naturale di pesce che poi va a colonizzare anche altre aree, è un fatto.
Questo periodo di fermo dalle immersioni è una dolorosa necessità, tuttavia eventi come questi sono utili non solo per noi appassionati del mare, ma sopratutto per diffondere una maggiore consapevolezza. Si ringrazia Blue & Blue Diving, per aver organizzato questa splendida chiaccherata.



Buone Bolle





Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”

lunedì 4 maggio 2020

Haven dal Paradiso all'Inferno - diretta web con gli autori



 “La Haven è il relitto visitabile più grande del Mediterraneo. L'immersione,viste le profondità in gioco, è ritenuta "impegnativa", ed è fortemente sconsigliata a subacquei "inesperti". Per l'immersione (fino a 40 mt) viene richiesta un brevetto advanced (con specialità deep) o un brevetto decompression diving (40-54 mt) / trimix (54-82mt). Inoltre vige una Ordinanza della Capitaneria di Porto di Genova (18/1999 e succ. 183/2003) che regolamenta le modalità di immersione sul relitto. “





11 aprile 1991 ore 12,40: nel tratto di mare davanti a Voltri (golfo di Genova), una colonna di fumo nero si leva densa e maleodorante, non si sono ancora spente le sirene per il disastro del traghetto Moby Prince il giorno precedente. Un incendio ha causato da una grande esplosione avvenuta a bordo della petroliera Haven. Tutto avviene dinanzi al porto petroli di Genova Multedo, durante un'operazione di travaso di greggio dalla stiva 1, a prua, alla stiva 3, a centro nave, si verifica un'esplosione a bordo. Tra i 36 componenti l'equipaggio si contano cinque morti, Ioannis Dafnis,
Domingo Taller, Gregorio Celda, Serapion Tubonggan e il comandante Petros Grigorakakis. Dopo la fase iniziale di incendio del combustibile versato in mare, la nave venne trainata al largo di Arenzano; per una fortunata serie di coincidenze (mare calmo, assenza di vento), la maggior parte del combustibile fu esaurito dalla combustione durata più giorni. Dalla prima esplosione al momento dell'affondamento si stima che siano bruciate almeno 90 mila tonnellate di petrolio. Le ottime condizioni meteo-marine evitarono che le colonne di fumo (alte fino a 300 m) raggiungessero le nostre coste. Come abbiamo detto in precedenza, durante la notte la nave in fiamme si spostò in direzione di Savona . Il giorno successivo fu trainata tra Cogoleto e Arenzano; durante l'inizio dell'operazione di traino, la parte prodiera, indebolita dalle esplosioni e con il metallo snervato dal forte calore generato, si staccò dal resto dello scafo. La parte distaccatasi, lunga 95 metri, si adagiò a 470 metri di profondità .
In seguito il relitto affondò, oggi si trova su un fondale di circa 85 metri nelle acque antistanti Arenzano in assetto di navigazione. Si tratta del più grande relitto visitabile da subacquei del Mediterraneo, e uno dei più grandi al mondo. L'affondamento causò la perdita di migliaia di tonnellate di petrolio che almeno in parte, nelle sue componenti più dense, ancora oggi permangono nei fondali marini antistanti Genova. E come dirà durante l'incontro sul web Dino Passeri, purtroppo perde ancora oggi, nonostante la bonifica.La Haven aveva diverse navi gemelle, che hanno avuto un analogo destino, rispettivamente: Amoco Cadiz, affondata il 16 marzo 1978 di fronte alle coste bretoni perdendo in mare 230.000 tonnellate di greggio, Maria Alejandra, esplosa l'11 marzo 1980 di fronte alle coste della Mauritania, Mycene, esplosa il 3 aprile del 1980 di fronte alle coste della Sierra Leone. “La Haven è il relitto visitabile più grande del Mediterraneo. L'immersione,viste le profondità in gioco, è ritenuta "impegnativa", ed è fortemente sconsigliata a subacquei "inesperti". 
Per l'immersione (fino a 40 mt) viene richiesta un brevetto advanced (con specialità deep) o un brevetto decompression diving (40-54 mt) / trimix (54-82mt). Inoltre vige una Ordinanza della Capitaneria di Porto di Genova (18/1999 e succ. 183/2003) che regolamenta le modalità di immersione sul relitto. “ (Cit.)

Venerdì 1 Maggio 2020, appuntamento in DIRETTA FACEBOOK organizzato dal Lorenzo Sub Fiumaretta (Sp).
Obbiettivo, alla scoperta del più grande relitto del Mediterraneo, quello della superpetroliera Haven, adagiata di fronte ad Arenzano (Ge). Gustosa occasione per una chiaccherata con i produttori del più completo documentario ad oggi prodotto dal titolo "Haven, dall'inferno al paradiso": Rino Sgorbani, Davide Boschi, Davide Briccolani e Dino Passeri ci accompagnano in una sorta di immersione virtuale.
Dino Passeri si definisce il palombaro più vecchio d'Italia, e forse ha ragione mi sa, persona di comprovata esperienza, fu chiamato dalle autorità per alcuni sopralluoghi e sopraintendere alle operazioni di bonifica della Haven nell'arco di diversi anni.

Rino Sgorbani è in acqua dal 1977 anno in cui consegue il primo brevetto FIPSAS, allievo di Duillio Marcante, negli anni 80' diventa istruttore CMAS e si consacra a quella che diverrà poi la sua passione: la fotografia Subacquea. Gli anni 90' segnano invece il suo passaggio alla attività di cineoperatore subacqueo che coltiverà insieme alla sua esperienza di subacqueo tecnico a circuito chiuso.Grande amico dell’acquese Giancarlo Borgio, 39 anni, rimasto ucciso sabato mentre esplorava una grotta subacquea in Svizzera, nella zona di Lugano. I due si erano conosciuti anni fa durante un’immersione nel relitto della Haven ad Arenzano e collaboreranno alla realizzazione del film documentario “Haven: Dal Paradiso all'Inferno”. Davide Boschi, Piacentino, sub di provata esperienza ed estensore di alcuni articoli di subacquea che ha curato i testi. A Davide “Brick” Briccolani si deve il montaggio delle riprese e dei modelli 3D della Haven, che permettono allo spettatore di capire in quale punto siano state effettuate le
riprese durante la visione del documentario. La serata di dipana piacevolmente, mentre gli intervenuti ci raccontano le difficoltà e gli aneddoti che hanno portato alla realizzazione del film. Sembra in realtà una rimpatriata tra vecchi amici, ad i quali mancano solo Oscar Corona, che non è riuscito a collegarsi e il compianto Giancarlo Borgio. Il tutto moderato in modo magistrale da Cesare Balzi. Le atmosfere sono suggestive, e la bravura dei sub fa sembrare tutto estremamente semplice, ma a quelle profondità nulla lo è. Curiosi i commenti di Passeri che disse che rimpiangeva di non poter aver avuto simili visibilità quando toccò a lui a poche ore dalla tragedia, e poi in altre occasioni riuscire a lavorare con quella visibilità.
Consiglio vivamente la visione del docufilm, in religioso silenzio eun grazie a Lorenzo Sub Fiumaretta (Sp) per aver organizzato questa gustosa occasione.

venerdì 1 maggio 2020

10 marzo 241 a.C. : Fabio Portella racconta




Giovedì 30 Aprile 2020, oltre cento persone collegate, una cosa consueta di questi tempi, partecipare ad una conferenza webinair, durante la quarantena che ci sta tenendo inchiodati tutti a casa. Anfitrione di questa serata è Fabio Portella del Diving Center “Capo Murro” (SI), Istruttore GUE (Global Underwater Explorers), sub di esperienza, grande quanto la sua modestia. Il tema della serata riguarda un evento storico di portata epocale: La Battaglia delle Isole Egadi. Lo scontro navale che ebbe come teatro il quadrilatero Drepanum (l'odierna Trapani), Aegussa (Favignana), Hiera (Marettimo), Phorbantia (Levanzo).
Fabio Portella

Fu la battaglia navale conclusiva della Prima guerra punica. Dopo oltre vent'anni di scontri navali e terrestri, con fortune alterne, Cartagine subì presso le Egadi una sconfitta pesante in termini di uomini e soprattutto di navi; economicamente allo stremo, dovette chiedere una pace onerosa a Roma. D'altra parte il conflitto protratto tra le due citta-stato per un ventennio aveva messo allo stremo le finanze di entrambe. Se da una parte Roma cominciava ad accusare qualche problema nel chiedere rinforzi ai socie a causa delle troppe spese per le battaglie navali e i naufragi (Le navi romane erano più vulnerabili alle tempeste a causa del "Corvo" una passerella usata per l'abbordaggio), l'erario non era in grado di allestire nessuna flotta degna di questo nome; solo cinque anni prima dalla sconfitta di Trapani e dall'immane successivo "naufragio di Camarina" che aveva distrutto quasi del tutto il naviglio militare, era stata costretta a cessare di rinforzare la flotta limitandola alle sole navi onerarie e gestire la difesa marittima con qualche superstite Nave da guerra. Cartagine non era messa meglio, anche se sul mare restava dominatrice, complice il fatto dell'essersi

impadronita di parte di quel che restava della flotta di Roma, si era però svenata nella gestione della flotta, i commerci erano rallentati. Infatti i marinai, contrariamente alle truppe di terra che erano in genere mercenarie, provenivano dalle forze dei cittadini-mercanti. E i mercanti, se non possono coltivare i loro mercati, finiscono per passare la mano alla concorrenza. I commerci di Cartagine languivano e non potevano generare la ricchezza necessaria a pagare le sempre più necessarie truppe mercenarie. Era una pericolosa spirale economico-militare che rischiava di avvitarsi su sé stessa. Fu Roma a decidersi a chiudere la partita una volta per tutte: chiesti finanziamenti ai privati e facoltosi cittadini , armò a tempo di record una nuova flotta.

 A questo proposito esiste un interessante retroscena, qualche tempo prima era riuscita ad impadronirsi di due quadrireme Cartaginesi, che regolarmente forzavano il blocco navale dell'assedio di Lilibeo, nottetempo. Studiate le navi nemiche ne progettarono di nuove e migliori in gran segreto, nel contempo addestrarono un sostanzioso contingente da imbarcare per dare battaglia. Era in gioco la sopravvivenza stessa di Roma, come cita Polibio nei suoi scritti: «L'impresa fu, essenzialmente, una lotta per la vita. Nell'erario, infatti, non c'erano più risorse per sostenere quanto si erano proposti.». Il 10 marzo del 241 a.C. , scatta la trappola, la flotta romana è alla fonda ridossata sulla costa orientale di Levanzo, il comandante romano, Gaio Lutazio Catulo vide che la flotta cartaginese avrebbe avuto un forte vento da ovest a favore e che questo avrebbe reso più difficile far salpare la flotta romana.

 Dapprima incerto, riflettendo si rese conto che se avesse attaccato subito avrebbe avuto di fronte degli scafi ancora carichi e quindi più lenti e che questi avrebbero avuto a bordo solo forze di marina. Se avesse permesso lo scarico delle merci e l'imbarco degli uomini di Amilcare la situazione anche col vento in poppa non sarebbe stata altrettanto favorevole. Oggi sappiamo dal ritrovamento di diverse ancore romane, trovate in fila ordinata, proprio sul fondale di Levanzo, che la decisione dell'attacco fu repentina e fulminea, tale da richiedere il taglio delle gomene degli ancoraggi. Il resto è storia: la flotta romana si distese su una sola linea come per formare un muro contro le navi cartaginesi che veleggiavano verso la costa del Monte Erice. I Cartaginesi accettarono la battaglia; ammainarono le vele per avere maggiore mobilità e attaccarono i Romani.

Anche in questo caso Polibio ci racconta con i suoi scritti come la situazione pendesse sin dalle prime battute a favore dei romani:
«Poiché i preparativi per gli uni e per gli altri venivano regolati in modo opposto rispetto allo scontro navale svoltosi presso Drepana, anche l'esito della battaglia, com'è naturale, risultò opposto per gli uni e per gli altri.» . Ed ancora riferendosi ad i cartaginesi : «gli equipaggi erano completamente privi di addestramento ed erano imbarcati per l'occasione, e i soldati di marina erano appena arruolati e sperimentavano per la prima volta ogni sofferenza e rischio.» . Un errore di valutazione dei Cartaginesi , che ritenevano i Romani, a seguito della serie di sconfitte e di naufragi, fossero incapaci di governare le navi. Una combinazione disastrosa di errori. Inferiori nella manovra e nel combattimento ravvicinato, i Cartaginesi videro rapidamente affondare cinquanta navi e altre settanta furono catturate complete di equipaggio, pare 10.000 uomini. Un fortunato volgersi del vento permise alle superstiti, alzate nuovamente le vele, di sganciarsi e ritornare all'Isola Sacra, Marettimo. Venendo ai giorni nostri e alla serata in questione Fabio Portella, dopo gli inevitabili cenni storici di cui abbiamo appena letto, ci ha parlato del ritrovamento/recupero di 18 rostri in bronzo che vennero utilizzati sulle navi che si diedero battaglia quel giorno. 
Una spedizione, frutto di una collaborazione internazionale tra la Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana e la GUE. Il ritrovamento del primo rostro lo si deve al caso, un pescatore lo trovò impigliato, probabilmente in una rete a strascico e lo barattò con una dentiera! Si avete capito bene, il dentista in questione lo espose incautamente e la cosa arrivò alle orecchie del prof, Sebastiano Tusa, un pioniere in questa ricerca archeologica. I rostri servivano a speronare le navi avversarie con tecniche di ingaggio ben definite, tuttavia le scoperte recenti hanno sfatato una credenza diffusa solo fino a qualche anno fa, e cioè che i rostri fossero a “Perdere”. Vale a dire che, dopo che venivano conficcati nello scafo della nave avversaria, similmente ad un pungiglione sarebbero rimasti lì, il ritrovamento di alcuni rostri con ancora resti lignei all'interno e fissati da lunghi chiodi di bronzo sfata questa credenza, come Fabio Portella ama ripetere è la “Prova Provata” che il rostro nasceva e moriva con la nave.
Al momento ne sono stati ritrovati 18 durante le varie campagne, ad una profondità tra gli 85 e i 100 metri, recuperi onerosi, dal momento che il peso oscilla, a seconda dei modelli tra i 180-250 kg di ottimo bronzo. I romani vinsero questa battaglia, ma stranamente i rostri che vengono ritrovati sono per lo più romani, su 18 al momento 16 sono romani e solo due cartaginesi. Una spiegazione potrebbe essere che in precedenti battaglie i Punici avevano predato delle navi romane grazie alla loro schiacciante superiorità, e che questo naviglio fosse stato inglobato nella flotta Cartaginese, quindi i Romani alle Egadi si trovarono contro le loro stesse navi. Se ne parlerà ancora degli anni a questo proposito, ho linkato all'uopo alcuni filmati che raccontano ampiamente sia il fatto storico che la campagna di recupero. Buona visione!

Link:

Sicilia svelata - Mozia: rostri della battaglia delle Egadi


12°Rostro della Battaglia delle Egadi


Ritrovamento di un rostro Romano




Buone Bolle!


Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”


sabato 11 aprile 2020

La Pinna Nobilis e Bisso... un destino intrecciato (Seconda Parte)

Nel mio pezzo precedente abbiamo parlato della Pinna Nobilis privilegiando il suo aspetto naturalistico ed accennando alle sue relazioni antropiche, in questa parte approfondiremo proprio quell'aspetto, purtroppo, vi avviso prima, potrei divagare ancora una volta sul viale dei ricordi. Come ho precedentemente raccontato ho passato molte estati a S.Antioco, dal momento che la mia famiglia, per ramo materno, proviene proprio dall'isola. Come successo a molti, anche noi dovemmo emigrare al Nord per questioni di pura sussistenza, ma come uso dire spesso “Puoi portare il cuore di un sardo lontano dalla Sardegna, ma non la Sardegna lontano dal suo cuore”.
Sapevo cos'erano le nacchere sin da bambino, sapevo che qualcuno ne utilizzava una parte per fare dei tessuti, ma è solo negli anni 90' che mi interessai di più alla cosa. Facendo da cicerone ad un amica venuta in vacanza sull'isola, ne approfittai per rifare il giro dei
Museo Etnografico di S.Antioco
siti archeologici e nel pacchetto era compreso una visita al Museo Etnografico di S.Antioco. Fu lì che un simpatico cicerone, oggi diremmo stewart, tra aneddoti e facezie ci diede le prime informazioni sul bisso di mare e di una signora del luogo che ne portava avanti la tradizione della tessitura. In realtà la mia amica, ne aveva sentito parlare già prima e quindi provammo a vedere se era possibile incontrarla. Stiamo parlando di Chiara Vigo, ora prima di continuare, devo chiarire un punto immediatamente; esiste una diatriba sull'isola di Sant'Antioco circa meriti, tradizioni ecc, io non entrerò nel dettaglio di quella che casso senza “se” e senza “ma”, come una sterile disputa. Più sotto ho postato dei link e dei filmati, ognuno di voi che legge si farà un opinione per conto suo visionandoli. Posso riconoscere alla signora Vigo però, il merito di aver portato la conoscenza di questa tradizione fin dagli anni 80' in giro per l'Italia e non solo, quindi credo al di là delle critiche che legittimamente ognuno di noi può muovere, questo glielo si debba riconoscere incontestabilmente, rimando alla mia riflessione finale, quella che è la mia “debol opinione”.
Fili di Bisso
Tornando a noi, la signora Vigo ci ricevette in casa sua una mattina d'agosto, credo fosse il 1991, avevamo spiato prima dalla finestra aperta di casa sua la stanza con il telaio aperta sulla strada, che poi ci portò a vedere successivamente. Fu molto cortese e ci spiegò le origini di questa forma d'arte/artigianato e il suo impegno per diffonderne la conoscenza al di fuori del ristretto bacino del Sulcis. Futile dire che ebbi a rivederla in giro per il paese o nelle vicinanze di casa sua diverse volte nel corso degli anni, ma quello fu il mio unico scambio di battute con lei e non ne ebbi una cattiva impressione ad essere sincero. Come ebbi modo di scoprire in seguito Sant'Antioco non fu l'unico luogo dove questa forma d'arte ebbe a svilupparsi. Questa tradizione era radicata anche a Taranto, occorre tuttavia fare qualche passo indietro. Dare un origine alla pratica di tessere il bisso è pressochè impossibile, la sua tradizione affonda nei millenni legandosi alle civiltà antiche del bacino mediterraneo e del vicino oriente. La fitta rete di scambi, rende difficile se non impossibile stabilire con esattezza dove, come e quando essa vide la luce, un riferimento certo però lo troviamo in fonti ben anteriori a alla cultura ellenica e romana, visto che nella Bibbia, Antico Testamento, se ne fa cenno, descrivendo questa manifattura come molto apprezzata e ricercata. In un passo ad es. del 2° libro delle Cronache, Salomone chiede, per la costruzione del tempio, che il re di Tiro gli mandi un uomo esperto nei filati di bisso e nella porpora cremisi e violetto, mentre in un altro passo dello stesso libro si dice che nel tempio tutti i cantori leviti erano vestiti di bisso. 
Foto di Marco Moretti


Nell’insieme troviamo ben 46 brani del testo biblico in cui si parla del bisso. Tramite ebrei e fenici, la tecnica della lavorazione del bisso ha finito così per arrivare fino ai greci, compresi quelli delle colonie del Sud Italia come Taranto. Il bisso lascia traccia di sé spesso nel corso della Storia, legando il suo fato a quello di civiltà, Re ed Imperatori. Si legge, ad esempio, nelle fonti antiche che: i dazii furono pagati ad alcuni Re di Egitto in tele di bisso; che di bisso erano le cortine del tabernacolo nel tempio di Gerusalemme; che famiglie distinte erano impiegate al lavoro del bisso nel vestibolo dello stesso tempio; che con velo di bisso si mostrò Cleopatra alla battaglia d’Azio; che di bisso, nei loro riti solenni, vestivano i sacerdoti di Egitto; inoltre il bisso era annoverato tra le più ricche derrate che dalla Siria erano trasportate a Tiro; era impiegato nelle regie vesti più solenni; i leviti cantori erano vestiti di bisso nel tempio di Gerusalemme; il re Davide accompagnò l’Arca con la stola di bisso; gli eserciti celesti sono vestiti di bisso nell’Apocalisse; di bisso vestiva la nobiltà indiana; in fasce di bisso fu avvolto il cadavere di Anchise; fasciate di bisso furono le ferite di Pezio eroe persiano; e per finirla, con veste di bisso la vedova di Alessi seniore andò incontro all’imperatore Manuele, nella sua entrata solenne in Costantinopoli. 
 
Tessitrici di Bisso

Plinio arriva a sostenere che la cosiderazione fosse tale, che i suoi manufatti fossero venduti letteralmente a peso d'oro. Lo stesso Plinio il Vecchio ne parla diffusamente nel suo Historia Naturalis, descrivendo le modalità di pesca intensiva con un attrezzo costituito da due archi di ferro congiunti da una pertica di lunghezza utile alla profondità a cui si utilizzava, che servivano a pinzare il mollusco, chiamandolo “pernilegum” Un altra tecnica di pesca consisteva nel mettere un cappio intorno alla conchiglia ad opera da un uomo che si tuffava in apnea, ed un altro che tirava la fune dalla barca. La raccolta e tessitura del bisso di mare fu fiorente sino al 500 d.C., data nella quale fece la comparsa in Europa il baco da seta. La lavorazione del bisso di mare era assai laboriosa, mentre quella del baco da seta allevato sulle foglie di gelso, era decisamente più conveniente e pratica, così questa fiorente lavorazione dovette cedere il passo. 
Pesca della Nacchera


La tradizione/lavorazione non si perse del tutto , ma finì per divenire una specializzazione che riguardava poche famiglie si tramandavano per una manifattura artistica di pregio, fatta di pezzi unici riservati per lo più ad omaggiare personaggi ed eventi importanti. Nell’Italia meridionale, Taranto che in epoca classica era stata il centro di una fiorente lavorazione, nei secoli più vicini a noi vide dunque abbandonata la tessitura e il prezioso filato fu usato solo per ricamare. Possiamo pensare, ragionevolmente che un simile destino fu riservato anche al bisso sardo. Tuttavia la tradizione non si perse: il Prof. Attilio Cerruti condusse negli anni ‘30, con fondi del CNR, una ricerca sull’accrescimento di Pinna nobilis L., da cui il bisso si ricava, a partire dagli stadi giovanili dell’animale raccolti nella zona di San Vito, ed inseriti in cassette di legno da collocare nell’ambito dell’allora esistente “zona sperimentale” nel Mar Piccolo. 
 
Foto di Marco Moretti
Pinna Nobilis (Linnè 1758)

Gli esperimenti di A. Cerruti sull’allevamento di Pinna Nobilis L. iniziarono nell’ottobre 1937 e proseguirono fino al settembre 1939. I risultati furono resi noti tramite due pubblicazioni: 1) A. Cerruti, 1937 – “Primi esperimenti di allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar Piccolo di Taranto, in ‘La Ric. Scient., II, I: 7-8; e 2) A. Cerruti, 1939 – “Ulteriori notizie sull’allevamento della “Pinna nobilis L.” nel Mar Piccolo di Taranto, in La Ric. Scient., XVIII: 1110-1121. L'esperimento diede buoni frutti, ma alla fine il progetto fu abbandonato. E' noto che sino ai primi decenni del secolo scorso, esistevano ancora piccole produzioni di bisso ad Alghero, La Maddalena, Cagliari, Cabras, Bosa e Sant'Antioco.
 
Arazzo realizzato da Italo Diana

 Ci fu anche chi, preso dall'entusiasmo per le particolari proprietà del tessuto marino volle sperimentarne una produzione industriale. Giuseppe Basso Arnoux inviò dalla Sardegna decine di Kg di fibra alle filande del nord-Italia. Il risultato fu però fallimentare: le macchine non solo non riuscivano a filare quei fili, ma ne venivano danneggiate! Parallelamente sull'Isola di Sant'Antioco durante il ventennio fascista, quindi in un periodo del tutto omologabile a quello in cui operò la sua ricerca il Prof. Cerruti, veniva creata sull'isola una Scuola di Tessitura del Bisso di mare. La creazione di questa scuola si deve a Italo Diana, esiste una vasta mole di documentazione a questo riguardo. Essendo considerata una manifattura di pregio godè del favore del regime, lo stesso Diana realizzò( o fece realizzare) un arazzo nel 1938 in Bisso marino per farne dono a Benito Mussolini, in occasione della sua venuta in Sardegna per l'inaugurazione della fondazione dell'insediamento estrattivo di Carbonia. Una piccola curiosità: l'arazzo, destinato a Benito Mussolini il quale sarebbe stato presente a Carbonia per l'inaugurazione della cittadina mineraria, in origine recava anche la scritta W IL DUCE e il fascio littorio. Ma il manufatto non venne consegnato e in seguito il maestro Italo Diana provvide a cancellare scritta e fascio, camuffandoli con motivi stilizzati. 
Italo Diana


Come abbiamo detto precedentemente produrre il Bisso non era una passeggiata di salute. Italo Diana doveva pagare giornalmente i pescatori perché si dedicassero alla pesca delle nacchere, dalla quale veniva estratta la preziosa fibra. Sembra che capitasse che come corrispettivo veniva fornito del tabacco, genere questo che molti pescatori non potevano permettersi a causa dell’alto costo. Il mollusco, privato della sua barba, veniva quindi restituito ai pescatori per poterlo mangiare. Italo Diana animato da un insaziabile curiosità tentò anche la tintura del bisso con la porpora ricavata dal murice (come si faceva nell’antico Egitto), S.Antioco infatti, non difetta in quanto a presenza di “Bocconi” (nome con il quale si designano due murici: Stramonita Haemastoma – Linnè 1767 e Hexaplex trunculus – Linnè 1758), l'esperimento però non andò a buon fine, stesso risultato ebbero i tentativi con essenze vegetali. Ovviamente come si desume, ad Italo Diana, va riconosciuto il merito di aver salvaguardato una manifattura di pregio che rischiava di perdersi nel tempo, viene naturale pensare che sarebbe potuto accadere affidandosi solo ed unicamente alle tradizioni famigliari di poche e sparute famiglie, destino che abbiamo visto compiersi a Taranto. La scuola, che si trovava in Via Magenta a Sant'Antioco chiuse i battenti nel 1957, quando il Diana venne chiamato a Sassari come docente in una scuola d'Arte. Fortunatamente la sua opera diede i suoi frutti e quell'eredità non andò persa, diverse donne avevano appreso quell'arte da Italo Diana: tra loro Emma Diana (figlia di Italo) e la stessa nonna di Chiara Vigo.
Chiara Vigo e il museo del Bisso di S.Antioco

Una curiosità: Italo Diana non volle mai che nessuna delle sue figlie si interessasse alla produzione del Bisso, fortunatamente per noi sua figlia Emma contravvenne a questa volontà. Oggigiorno le poche produzioni di Bisso a Sant'Antioco ( e quindi al Mondo), ammesso che si possano chiamare ancora così, vere e proprie opere d'arte che nulla hanno di commerciale per il loro valore intrinseco, sono portate avanti da un numero ristretto di persone; oltre a Chiara Vigo, posso citare le sorelle Assuntina e Giuseppina Pes e Marianna Pischedda. Di quest'ultima ho potuto ammirare i lavori in una sua esposizione nei locali prospicienti Piazza Italia a Sant'Antioco, nell'Agosto del 2017 (non posto foto mie di quest'evento perchè non era permesso agli intervenuti scattarne).


Marianna Pischedda durante la sua esposizione

Riflessione Personale:
Vivo lontano da Sant'Antioco da molto tempo, e ci torno troppo poco, sicuramente meno di quanto vorrei, malgrado mi senta molto legato all'isola. Non è un segreto per nessuno che io sono un sostenitore di una AMP (Area marina protetta) nell'area di mare compresa tra le isole di San Pietro e Sant'Antioco ed il braccio di mare sino a Portoscuso, proprio perchè amo la mia terra ed il mio mare. Detto questo so che per me, causa la lontananza è fin troppo semplice mantenere il distacco da certe diatribe di paese che trovo incomprensibili, non vivendoci. Ho cercato di scrivere questo pezzo, senza partigianeria, attenendomi ai fatti certi. Per quel che riguarda questa tradizione della lavorazione del Bisso di Mare, posso solo concordare che sia al pari di altre tradizioni, un patrimonio dell'umanità da conservare e tramandare nel rispetto innanzitutto di chi quel Bisso lo origina: la Pinna nobilis. Ho sentito dire che esistono dei progetti per coltivare i Datteri di mare in blocchi di calcestruzzo, evitando la distruzione abusiva di decine di metri quadrati di scogli per un singolo piatto di pasta. Similmente se si vuole dare una possibilità al bisso, credo sia possibile perseguire anche l'idea del Prof Cerruti, senza per questo essere costretti ad uccidere l'animale. Il Bisso fa parte della nostra Storia, e la Storia non appartiene a nessuno in particolare, bensì è un patrimonio comune.



Link:

Sito ufficiale di Chiara Vigo   
Il bisso di Taranto 
Il Lusso e l'inimmaginabile: il Bisso marino
 
Youtube:


Mostra di Marianna Pischedda 

 

Le Trame del Bisso




Il Bisso e l'arte di Chiara Vigo

 

Arianna Pintus - La lavorazione del bisso






Buone Bolle!


Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”


La Pinna Nobilis e Bisso... un destino intrecciato (Prima Parte)


S.Antioco (CI)

Negli anni 70' se visitavi qualche casa di campagna del Sulcis prospiciente il mare, o entravi in qualche locale non era inusuale trovarvi esposte le grandi valve di Nacchere (Pinna Nobilis) o qualche conchiglia di Charonia, sopra un caminetto o nei giardini.
Enciclopedia naturalistica
A quell'epoca la coscienza ambientale era assai lungi e molto più approssimativa di quella odierna, che è ancor troppo latente, prova ne è che sia la Pinna Nobilis (Linnaeus, 1758), che la Charonia lampas (Linnaeus, 1758), oggi sono specie protette e considerate sull'orlo dell'estinzione. Nella fattispecie, qui parleremo del rapporto dell'uomo con la Pinna Nobilis o Nacchera, com'è più comunemente conosciuta.
Fin dai tempi antichi veniva raccolta, probabilmente per uso alimentare, cosa che oggi mi sentirei di sconsigliare vivamente, divieti a parte, essendo un mollusco filtrante ha la tendenza ad accumulare e raccogliere, assorbendoli dal mare grandi quantità di inquinanti e patogeni. Per questo motivo è stato utilizzato come indicatore dell'inquinamento marino (anche nucleare, presso il sito de la Maddalena). Sembra che sia anche in grado a volte di produrre una perla grigia, nera, bianca o rossa di nessun valore commerciale.
Un altro motivo per cui veniva raccolta è la raccolta del bisso, il ciuffo che serve per ancorare il bivalve al substrato dove poggia eretto con la cerniera verso il basso e la parte dove le valve si allargano verso l'alto. Il bisso è stato usato per diverso tempo per impreziosire tessuti, arazzi, vesti di ecclesiasti e reali, ma di questo parleremo nella seconda parte.
Foto di Roberto Puzzarini
Nacchera in Portofino
Per nutrirsi e respirare pompa l'acqua nella cavità del mantello mediante un sifone inalante e poi la emette attraverso uno esalante. Le valve hanno il margine posteriore arrotondato e presentano una ventina di coste radiali con scaglie a forma di canali. Il colore è bruno con scaglie più chiare; l'interno
Foto di Maurizio Bellacci
Murena trova casa in una pinna nobilis

è bruno e lucente con la parte anteriore madreperlacea. Possono vivere più di 20 anni e raggiungere un metro di lunghezza, ma la dimensione media della conchiglia di un esemplare adulto è intorno ai 65 cm. Ha uno sviluppo abbastanza rapido nei primi anni di vita, in media di 10 cm per anno; raggiunta la maturità sessuale, intorno ai 40 cm, l'accrescimento rallenta e si assesta su circa 10 cm ogni 3 anni. Il guscio delle valve non è particolarmente resistente haimè, il che le rende ulteriormente vulnerabili ad atti di vandalismo, motori fuoribordo in acque basse o al semplice uso scorretto di reti da pesca, tutto questo senza escludere un suo predatore naturale: il polpo.
Come tanti molluschi marini, produce dei filamenti con i quali si ancora al fondo del mare. Questi fili, sottili e robusti, costituiscono il materiale con cui si fabbrica il filamento detto bisso marino, utilizzato in passato, specialmente in Sardegna, per la tessitura di preziosi indumenti dai colori cangianti.

Foto di Fabrizio Gandino
Nacchera - Portofino
A seguito della tutela della specie, la lavorazione del bisso marino è quasi del tutto scomparsa. Purtroppo la piaga del collezionismo e la comparsa di un protozoo nel 2018 ha avuto un impatto devastante, con un tasso di mortalità vicino al 95% per le colonie che ne erano state colpite. E' endemica nel Mar Mediterraneo, è spesso situata in mezzo alle praterie di Posidonia oceanica, da pochi metri fino a 40 di profondità. Ne è stata segnalata nel 2008 la ricomparsa anche in corrispondenza delle lagune dell'alto Adriatico, come apparente conseguenza delle scogliere artificiali del progetto Mose: negli anni 1950-'60 si era assistito alla sua progressiva scomparsa a causa dell'inquinamento lagunare causato dagli scarichi del polo industriale di Marghera.
Personalmente mi è capitato di poterne osservare esemplari anche nel Parco Marino dell'Argentario, nel mare del Sulcis, ed in Liguria.

Foto di Roberto Puzzarini
Pinna Nobilis predata - Calafuria (LI)

Penso che tutti voi ricorderete il naufragio della Costa Concordia alle Scoglio delle Scole prospiciente l'Isola del Giglio; il recupero durato mesi e con l'impiego di un numeroso numero di strutture invasive per natura e numero, richiese di prendere e riposizionare l'intera colonia del luogo di Pinne nobilis, un operazione effettuata sicuramente con le migliori intenzioni, ma sul cui successo in molti hanno dubitato, malgrado l'impegno notevole.
Purtroppo è una specie minacciata dalla raccolta per il collezionismo, e neppure l'iscrizione nella Lista Rossa IUCN, che la classifica come specie in pericolo critico di estinzione (Critically Endangered), riesce ad evitare che puntualmente, ogni estate qualche turista cerchi di portarsene a casa un esemplare. Ma i guai non finiscono qui, purtroppo la progressiva riduzione delle praterie di Posidonia oceanica ha ulteriormente aggravato la situazione.

Pesca della Pinna Nobilis  (Foto d'epoca)
È inserita nell'elenco delle specie protette dal protocollo SPA/BIO (Convenzione di Barcellona), negli allegati della Direttiva 92/43/CEE (Direttiva Habitat) della UE e nei successivi aggiornamenti Direttiva 2006/105/CE , elencata nell'Allegato IV - Specie animali e vegetali di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa e perciò ne è vietata la raccolta se non per scopi scientifici. Capita spesso che offra riparo ad altri piccoli organismi come, Rissoa, Alvania, Elysia timida, gamberetti, policheti e cnidari. C'è a chi è capitato vedere un esemplare morto, privo del suo mollusco, divenire la tana di una piccola murena, questo alla Scoglietto dinanzi a Porto Ferraio.

Pinna Nobilis - Giannutri (GR)



Regno                                                     Animalia
Phylum                                                   Mollusca
Classe                                                     Bivalvia
Sottoclasse                                             Pteriomorphia
Ordine                                                    Ostreida
Superfamiglia                                         Pinnidae
Genere                                                    Pinna



Link:
 Wikipedia : Pinna nobilis 
Allarme per la pinna nobilis sentinella della salute del mare
 Golfo di Trieste, l'epidemia sterminante della pinna nobilis
Pinna Nobilis
Pinna Nobilis Gnacchera











Bibliografia



Conchiglie del Mediterraneo – Mauro Doneddu & Egidio Trainito, ed Il Castello 2010
Atlante di flora e fauna del Mediterraneo - Egidio Trainito, Rossella Baldracconi, ed Il Castello 2014
Le Conchiglie del Mediterraneo – Fratelli Melita Editore 1991
Pinneggiando nei mari italiani – Marco Bertolino, Maria Paola Ferranti, Hoelpi 2019



Fine Prima Parte         (Per continuare con la Seconda Parte clickkare qui)




Buone Bolle!






Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”


Compensare con Federico Mana


Ero alla mia seconda immersione da neobrevettato, ci trovavamo allo Scoglietto, Isola d'Elba, dinanzi a Porto Ferraio, doveva essere un immersione semplice sui 15 metri. Con me c'era Michele, e Alessandro, un dive master che mi aveva seguito durante il corso insieme agli istruttori. Ero piuttosto ansioso di tornare in acqua, ed ero appena tornato dalla Sardegna. Avevo fatto la mia prima immersione da brevettato sul relitto della Eurobulker IV, e la seconda immersione era andata a farsi benedire, perchè la mattina il gommone aveva centrato un palo sommerso nel vecchio canale della laguna di S.Antioco, poi si era alzato il maestrale... più niente da fare. L'immersione era cominciata bene una discesa sui sette- otto metri, graduale, ma subito dopo qualcosa era cominciato ad andare storto, provavo a compensare ma non ci riuscivo efficacemente. Fu questione di istanti, eravamo sotto da non più di una ventina di minuti, quando un fastidioso dolore all'orecchio destro mi procurava dolori piuttosto fastidiosi. Feci quello che mi era stato insegnato, risalii un poco riprovai a compensare, ma se possibile la situazione peggiorava ulteriormente. Niente da fare insomma, risalimmo alla barca e gli altri due tornarono sotto, io con le pive nel sacco rimasi su per il resto del full-day, stagione conclusa. Mi recai dall'otorino per una visita spiegandogli l'accaduto, mi disse che avevo il setto nasale un po' deviato, o smettevo con la subacquea o mi dovevo far operare al setto nasale... superfluo dire che la “sentenza” non pi piacque neppure un po'. Un paio di settimane più tardi ci ritrovammo, con molti dei presenti al full-Day dello Scoglietto, a Lucca per un evento, mi chiesero com'era andata la visita. Raccontai che avevo il setto nasale deviato ecc, per tutta risposta chiamò altri tre ragazzi li presenti che si immergevano da anni, dicendomi che lui stesso e i tre in questione avevano il setto nasale deviato. Superfluo dire che la cosa mi rincuorò non poco; mi dissero che era una situazione piuttosto comune e che, dovevo imparare a conoscermi meglio e scendere compensando spesso o capire quando era necessario. L'occasione arrivò in primavera dell'anno successivo, al fine di ottenere performance ottimali ed evitare fastidiosi e pericolosi barotraumi, compensare è qualcosa di fondamentale sia per immersioni ARA che in apnea ed in

quest'ottica il 18 di Aprile 2013 presso il il Circolo Nautico Marina di Carrara “LA NUOVA ROTTA ASSOCIAZIONE SPORTIVA DILETTANTISTICA CARRARA “ aveva organizzato una serata formativa. Presenti all'appuntamento per il C.S.D. Eravamo Sammy Colaizzi, Michele Moffa ed io. La serata in oggetto costituiva il primo step formativo per permettere agli apneisti di avvicinarsi alle manovre di compensazione più evolute. Ci trovammo al solito punto d'incontro con gli altri ragazzi dell'Apnea Academy a Chiesina Uzzanese e poi, organizzati, partimmo alla volta di Carrarra. Docente d'eccezione, è il caso di dirlo, era Federico Mana campione italiano di apnea profonda, il primo italiano ad essere sceso a -100 metri. La sala era gremita e all'ingresso tutti ricevemmo una curiosa confezione con un palloncino. 

Si trattava dell' Otovent, un palloncino in lattice per uso medicale, che deve essere gonfiato con il naso per normalizzare la ventilazione dell’orecchio medio venuta meno per cause flogistiche, fisiche o degenerative. L’incontro era di carattere teorico pratico e non prevedeva sessioni in acqua. L'atmosfera era rilassata e distesa, la nostra anfitrione, Cristina, non perdette tempo e ci introdusse il nostro docente. Il campione italiano iniziò subito marcando le differenze tra i tre sistemi di compensazione più conosciuti: la manovra di Valsalva, la manovra di Frenzel e per ultima, il gotha di ogni apneista, la Hands free. Quello che colpì subito gli astanti fu senz'altro l'approccio dinamico dell'esposizione che mise tutti a proprio agio, neofiti come apneisti più scafati. La manovra classica, detta di Valsalva, (dal 

nome dell'anatomista Antonio Valsalva che la utilizzava per curare l'otite purulenta) prevede che il subacqueo chiuda le narici con le dita e soffi contro la resistenza dovuta alla chiusura del naso. In questo modo l'aria viene sospinta verso le tube di Eustachio e, attraverso queste, nell'orecchio medio dove equilibrerà la pressione idrostatica esercitata dall'acqua presente all'esterno del timpano. Come evidenzia subito Federico, questa manovra richiede uno sforzo notevole che la rende inefficace durante un immersione in apnea a testa in giù, per un subacqueo, risulta più emplice sotto questo aspetto grazie alla scorta d'aria. Più efficace se correttamente eseguita, è di la manovra di Marcante-Odaglia, nota nel mondo come Manovra di Frenzel, tecnica che prevede che il subacqueo chiuda il naso con le dita e poi sollevi la lingua in alto e indietro (non la punta ma la parte posteriore) in modo da sospingere l'aria contenuta nella bocca verso le tube di Eustachio. Infine la hands free che invece consiste nel riuscire ad aprire l'ostio 

delle tube tramite movimenti dei muscoli faringei per consentire all'aria di defluire, senza l'utilizzo delle mani, cosa che pochi fortunati riescono ad eseguire in automatico, grazie alla conformazione delle tube. Da una rapida indagine in sala apprendiamo che il 90% degli astanti applica la Valsalva correntemente...o meglio pensa di applicarla. Ci viene spiegato che la compensazione solitamente avviene in modo innato ed istintivo, pertanto impadronirsi della tecnica e del controllo delle strutture deputate alla compensazione non è soltanto una questione di predisposizione fisica ma anche di tecnica ed educazione alla conoscenza del nostro corpo e dei meravigliosi meccanismi che lo regolano. La serata proseguì con il supporto di mezzi audiovisivi volti ad evidenziare sia gli errori commessi che le abilità manifestate. Fondamentali gli esercizi per raggiungere una “capacità compensatoria fine”, gli esercizi con 

il protocollo OTOVENT; normalmente il Metodo Otovent integra il piano terapeutico farmacologico, chirurgico, termale ed il programma di rieducazione tubarica impostati dallo specialista.
Otovent è calibrato per esercitare una pressione fisiologica sufficiente a ventilare l’orecchio medio attraverso la
Tuba di Eustachio. Il nostro uso durante la serata servì ad evidenziare come spesso istintivamente riusciamo a controllare, bloccare l'aria all'interno delle nostre vie aeree superiori veicolandola in modo più o meno consapevole per estroflettere la membrana timpanica attraverso le Tube di Eustachio. Il concetto ribadito da Federico Mana, si basa sulla sua esperienza personale fatta anche di diversi barotraumi all'inizio della sua carriera, è che il controllo delle proprie vie aeree si può acquisire con esercizi che ci rendano consapevoli del nostro corpo. Gli esempi e gli esercizi si susseguirono, con episodi di vere e proprie 


regressioni infantili tra l'ilarità generale......date ad un adulto un palloncino e ….. Non tutti riescono ad eseguire correttamente gli esercizi, cosa che sembrerebbe confermare le dichiarazioni del campione, che sostiene che quello che per alcuni è innato può essere raggiunto da altri attraverso l'esercizio e la concentrazione fino a renderlo un automatismo. In conclusione posso dire che la serata è stata utile ed istruttiva ed ha mantenuto le sue premesse:vale a dire gettare le basi per i presupposti di una nuova consapevolezza: Certo la strada era lunga, ma possibile. Vivamente consigliata la lettura del libro La compensazione evoluta. Dalla compensazione oltre il limite respiratorio alla manovra hands free” di Federico Mana ed una visita ai link riportati di seguito. Un aneddoto: il Mana ci raccontò che al terzo barotrauma, l'Otorino che lo visitò lo esortò ad abbandonare l'apnea come sport, perchè non adatta a lui, mi pare che i record smentiscano questa affermazione...non credete?



Youtube:
http://www.federicomana.com/eventilist.asp

Buone Bolle!


Fabrizio Gandino
Subacqueodisuperficie”